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CINEMA
18 Gennaio 2024 - 23:41

DIARIO VISIVO

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La Lady Morgan di Pupillo, un kolossal Bollywoodiano su Prime e Musidora, ancora...
DIARIO VISIVO

Uno dei tanti derivati dal personaggio di vittima inconsapevole di parenti malefici derivante da “I diabolici” di Cluzot, è La vendetta di Lady Morgan (1965), film diretto da Massimo Pupillo, che in realtà non finisce con l’avvenuta consapevolezza e la morte di Susan Morgan, ma con il suo riscatto e la sua vendetta tornando come fantasma. Costretta a sposare Harold (Paul Muller) dopo la presunta morte (in realtà tentativo di omidicio) dell’amato Pierre, Susan viene “circondata” nel castello in cui abita col marito da lui, da un improbabile maggiordomo (incrocio tra Frankenstein e Lerch) interpretato da un Gordon Mitchell minaccioso e in realtà criminale evaso, e dall’amante di Harold, Lillian (un’Erika Blanc di gelida quanto abbagliante bellezza), che complottano per far impazzire la donna fino alla sua morte e dividersi la di lei eredità. Poi la “fantasmatica” vendetta in cui la ritornante farà in modo che i tre si uccidano tra di loro. Ad una prima parte di film girato con una certa bellezza formale in un elegante bianco e nero ed un sapiente e misurato utilizzo di vento, fumo, pioggia, specchi, che ricordano i film gotici di Freda, si contrappone la seconda in cui viene esibito tutto un catalogo di avvenimenti “stupefacenti” che sembrano usciti dalla mente irrefrenabile di William Castle: il gotico si mischia con il fantastico per poi finire addirittura nel vampirico. Non vengono risparmiati tutti i trucchetti soliti, porte che sbattono, candele che si accendono e spengono da sole, acqua che diventa sangue, vasi che esplodono… un assemblamento di generi nel genere che comunque resta piuttosto godibile. Lady Morgan è Barbara Nelli (che mi accorgo avere una notevole somiglianza fisiognomica con Elettra Lamborghini) in un ruolo molto compassato e da vittima ben diverso da quello che ho visto da poco in A doppia faccia dove, ben più spigliata, viene accarezzata dalla macchina da presa e da Klaus Kinski nella sua nudità. Con Pupillo ha fatto anche il cult Il boia scarlatto. Clamoroso abbaglio del Giusti nel suo Stracult che, probabilmente non ricordando il film, ne parla solo attraverso alcune dichiarazioni di Erika Blanc ma pensando che sia lei, e non la Nelli, Lady Morgan! (voto 6+)

BOLLYWOOD. Padmaavat (2018) è un kolossal bollywoodiano che si recupera su Primevideo. Tratto da un poema epico intreccia le vicende della leggendaria regina Padmavati con la storia indiana (per altro causando notevoli polemiche come sempre quando si mettono in scena gruppi religiosi). Qui il terribile e ambiziosissimo re mussulmano Alauddin, dopo aver conquistato il regno di Dehli uccidendo lo zio e impalmandone la figlia (che però tratta più da schiava che da moglie), si invaghisce della regina Rani Padmavati dalla bellezza divina e sposata al re hindu Maharawal Ratan Singh, tutto etica e morale, vero eroe positivo. Dopo varie vicissitudini e scontri che sembrano partite di scacchi, tra strategie e sotterfugi si arriva allo scontro finale che porterà al sacrificio di Padmavati e di tutte le donne hindu che decidono di immolarsi pur di essere catturate da Alauddin e dalle sue truppe. Nel film (come in quasi tutti i kolossal di Bollywood) tutto è eccessivo. L’intervento massiccio delle correzioni digitali (qui siamo alle porte della A.I.) rende il barocchismo a livelli di delirio visivo quasi difficile da sostenere, i costumi e i gioielli sono sfarzosi al limite del kitsch, le coreografie magniloquenti, le caratteristiche dei personaggi esagerate al limite. Anche la storia narrata su quasi tre ore di film non ci va di fino mischiando elementi poetici, melodrammatici, shakespeariani e altri da tragedia greca. Il rapporto tra i due re è sanguigno ma allo stesso tempo mentale. Le donne sono sagge e pronte al sacrificio. L’amore sboccia e ingrandisce tra giardini paradisiaci e stanze enormi e lussuosamente agghindate. Un medioevo reso fiammeggiante quasi rococò. Troppa forma ma anche troppa sostanza. Troppo di tutto, godiamone. (voto 6,5)

In Val Pusteria, ai bordi di un bosco innevato, nel freddo inverno natalizio, Andrea De Sica (figlio di Manuel e nipote di Vittorio) ci racconta nel suo esordio I figli della notte del 2017 le giornate e, soprattutto, le nottate, di alcuni ragazzi, figli di industriali e comunque benestanti, che, vuoi per il troppo impegno dei genitori, vuoi per comportamenti fuori dalla norma, vengono “rinchiusi” in un collegio per tornare sulla retta via ed imparare i rudimenti per diventare i degni eredi di così altolocate famiglie. I due protagonisti sono Giulio ed Edoardo, i due esclusi dagli altri, quelli che vorrebbero ribellarsi in qualche modo sia alla vita prospettata loro, sia alle idiozie dei compagni. Tra bullismo, fughe al bordello, fantasmi, e cupi corridoi e solai la loro situazione esploderà verso l’autolesionismo o l’omicidio in una follia collettiva. De Sica flirta con il fantastico e con l’horror (che poi esplorerà più direttamente nel successivo Non mi uccidere (2021),  allontanandosi dal mero film di college con alcune deviazioni interessanti ma penalizzato da una recitazione un po’ troppo “imbalsamata”. (Voto 6) Unico product placement la Bauer che fornisce l’attrezzatura sportiva delle partite di Hockey su ghiaccio, sport praticato dai collegiali.

MUSIDORA. Dopo I vampiri recupero uno dei tre film “spagnoli” diretti e interpretati da Musidora, l’icona francese del cinema muto. Su youtube in una buona copia si trova Sol y sombra del 1922 in cui Musidora uccide sé stessa! Nel film la nostra eroina interpreta due personaggi, la sanguigna popolana Juana e una bionda straniera dai modi raffinati. Entrambe sono amanti di un torero che, come quasi tutti i toreri dei film, ad un certo punto viene incornato. La gelosia e la rabbia portano Juana a vendicarsi uccidendo la straniera. La storia, che forse esplicita le paure sentimentali dell’attrice che in Spagna era arrivata proprio per amore di un torero, è il solito triangolo con l’aggiunta di un interessante personaggio devoto a Juana, un gobbo che per lei farebbe qualsiasi cosa ma non è “calcolato” da lei. Ciò che resta del film sono i primi piani della doppia Musidora in versione luna e sole, la bella fotografia, l’omicidio rabbioso e il quasi esclusivo potere delle immagini per raccontare la storia, infatti non ci sono didascalie tranne giusto un paio nel finale. (voto 6)

STEFANO BARBACINI

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