“Chi è il gangster?” Si canta e si balla in Thunivu (2023) (al momento su Netflix), ennesimo spettacolone bollywoodiano che, come spesso accade, non si limita ad incredibili sparatorie, spavalderie di un eroe che da solo sgomina decine di avversari, acrobazie, esplosioni, balletti deliranti, ma mette trame complicate che si sovrappongono per arrivare a ribaltare le premesse iniziali. In questo caso addirittura siamo a Brecht e al suo “è più criminale chi rapina una banca o chi la fonda?”. Una rapina di banca viene congeniata da tre diversi gruppi di ladri, su tutti però prende in mano la situazione l’antieroe imbattibile interpretato dalla star Ajith Kumar che, da solo con l’aiuto esterno della compagna, tiene in scacco la polizia e i proprietari della banca. Si scoprirà che dietro la vicenda ci sono vicissitudini del passato ed un’enorme truffa ai danni dei clienti della banca, truffati con investimenti fuffa. Allora chi è il gangster? Tutto dalla parte della povera gente contro politica, istituzioni e finanza anche se superficialmente è lo spettacolo, spesso eccessivo, che determina l’attenzione del pubblico. Bisogna capire se lo spettatore coglie la rabbia che Ajith cerca di scatenare in lui, una voglia di rivolta, o si accontenti di sperare che un personaggio superumano come quello del film arrivi a portare giustizia… (voto 6). Kia, compagnia telefonica Beetel, Mac Apple, Twitter e Toyota tra il product placement del film.
Sguardo problematico e affettuoso (condizioni di vita, bisogno di maternità, recupero dell’infanzia non ben vissuta tramite un figlio, rapporti di coppia difficoltosi) dell’esordiente regista A.V. Rockwell nel film all black intitolato A thousand and one (2023), Gran Premio della giuria al Sundance Film Festival. A Brooklyn una ragazza uscita dal carcere raccoglie un ragazzino, ad insaputa della famiglia a cui era affidato e degli assistenti sociali, e lo porta con sé. All’inizio lui non vuole seguirla e le imputa la colpa di averlo abbandonato a bordo strada quando aveva due anni di età, poi però la riconosce come madre e decide di seguirla. La donna gli cambia nome e lo porta con sé nell’appartamento, fatiscente, 1001 di un condominio di povera gente nel quartiere. Qui, raggiunta dal suo uomo, anch’egli uscito di galera, mette insieme una famiglia convincendo Lucky, che diventerà suo marito, ad accogliere il ragazzino anche se non è suo figlio. Gli anni passano. Le cose tra marito e moglie vanno male, lui la tradisce nonostante continui a supportare lei e il figlio. Tra mille difficoltà la donna, ormai non più la baldanzosa e speranzosa ragazzina dell’inizio, cerca di far diventare un uomo distinto e riconosciuto dalla società il figlio, ormai diventato un ragazzone di buon cuore e buone capacità intellettive… Uno spaccato realista che a tratti scivola nel patetismo ma poi recupera con felici scelte drammaturgiche e interpretative (bravissima la cantante Teyana Taylor a “trasformarsi” nell’interpretare le varie età della protagonista) una capacità di analisi di un agglomerato urbano e famigliare che dimostra di conoscere bene. (voto 6,5). Le sigarette Winston dimostrano di essere uno dei principali product placement del film apparendo in pubblicità fin dalle prime immagini, poi molte marche di abbigliamento sportivo, Champion, Adidas, Jordan Nike, Spalding… Poi un Kitkat diviso con amore e dolcezza tra madre e figlio.
Se vi piace il cinema di Bela Tarr, ovvero un cinema in un bianconero stiloso, lunghi piani sequenza, musica sostituita dal rumore dei passi o dal crepitio di un fuoco, ambientazione polverosa e desertica, dialoghi stringati e non troppo lunghi, personaggi perdenti ed emarginati, allora cercate di recuperare la trilogia dell’iraniano Ahmad Bahrami: Wasteland (2020), Wastetown (2022), Wasteman (2024). Il primo passato a Venezia, il secondo rintracciabile su youtube (in lingua originale solo) e il terzo che ancora non sono riuscito a recuperare. Le vicende di Wastetown sono ambientate in un grosso spazio, in una landa deserta, adibito a rottamaio d’auto. Un enorme cimitero di macchine a simboleggiare la morte delle speranze. Così come la fabbrica di mattoni in chiusura del primo film. Qui arriva una donna che apprenderemo uscita dal carcere dopo dieci anni per aver ucciso il marito. Probabilmente fu legittima difesa contro un uomo che tentava un femminicidio, ma siamo in Iran dove le donne non sono propriamente credute. Anzi, grazie ad uno dei cognati che non ha voluto testimoniare contro di lei ha salvato la pelle dalla pena di morte. Proprio il cognato lei va a trovare in mezzo ai rottami. La donna sta cercando di rintracciare il figlio che ha dovuto lasciare ai parenti al momento della carcerazione. Disposta a tutto per ritrovarlo. Però il bimbo è stato ceduto ad una famiglia di ricchi… Il dramma di una donna che cerca di lottare per quel po’ di vita e di affetto che il figlio potrebbe regalarle dopo esser stata trattata da criminale perché si è ribellata al marito. Tutto è raccontato con secchezza e senza sentimentalismo. Il dolore così arriva più subdolo e più drammatico allo spettatore che ha la pazienza di immedesimarsi nella protagonista. L’ennesimo autore di notevole interesse proveniente dalla terra degli ayatollah. (voto 6/7)
Di Maura Delpero, l’autrice dell’osannato (in parte giustamente) Vermiglio, non avevo ancora visto il primo film, la coproduzione italo-argentina Maternal (2019), anch’esso pluripremiato. In effetti si tratta di un esordio notevole, la “mano” della regista si dimostra subito matura e di un’autrice che ha ben chiaro come riempire un “quadro”, pescando suggestioni da immagini pittoriche e religiose. E’ un film interamente femminile, non vi sono uomini, solo ricordi o foto di questi e nessuno di loro vi fa una bella figura. E come potrebbe dato che la storia è ambientata in un istituto di suore in Argentina in cui vengono ospitate ragazze madri sole, abbandonate e senza averi. Il racconto si concentra principalmente su tre donne: Luciana (Augustina Malale) energica e ancora vogliosa di vivere e trasgredire, che si innamora però sempre dell’uomo sbagliato, madre della dolce piccola Nina; Fatima (Denise Carrizo) donna mite e materna che ha già un maschio ed è di nuovo incinta (probabilmente i figli provengono da abusi e quindi di uomini non ne vuol sapere), Fatima rappresenta la parte razionale, quell’amica che con pazienza si sobbarca dei guai di Luciana causati dai suoi colpi di testa; infine Suor Paola (Lidiya Liberman) giovane appena arrivata, empatica e pronta a dedicarsi al ruolo di sposa di Cristo. Quando Luciana sparisce, probabilmente per seguire il nuovo innamorato che peraltro la picchia, Nina, la figlioletta, resta sola e verrà principalmente accudita da Suor Paola che trova in lei quel bisogno di maternità che la regola che si è scelta le impedisce. Un delicato e allo stesso tempo solido, dreyeriano, ritratto di donne (sempre tre come nel successivo) diverse tra loro ma unite dalle problematiche femminili, ovvero quella maternità che agli uomini è negata. Aiutata da ottime interpretazioni e da una fotografia pittorica molto bella dell’argentina Soledad Rodriguez (mi viene in mente Casorati forse perché da poco ne ho visto un’ampia mostra), la Delpero si rivela autrice da tenere d’occhio (e Vermiglio lo conferma) ma, come nel successivo, deve, a mio parere, limare le parti (poche in verità) che si conformano eccessivamente all’aspettativa del pubblico che cerca più sentimentalismo che sentimento. (voto 6/7) A parte una macchina da cucire Singer non si vede product placement nel film.
Visto su Netflix, Carry-on (2024) è il tipico thriller in cui un funzionario (in caso un agente controllore aeroportuale), uomo “normale” con aspirazioni frustrate e una bella compagna che lavora con lui nello stesso aeroporto (il LAX di Los Angeles), viene obbligato, tenendolo sotto minaccia di far del male alla fidanzata (che viene tenuta sotto mira da un cecchino), ad agevolare un’operazione terroristica. In pratica deve far passare dal metal detector una valigia con una bomba contenente un micidiale gas nervino. Situazione di stallo in cui il nostro cerca di trovare una soluzione per non diventare complice di una strage. La situazione resta in questa immobilità piena di tensione (viene anche ucciso un collega perché lui tenta un escamotage fallito) solo per la prima metà di film perché poi diventa un concitato action movie come piace al regista Jaume Collet-Serra con robe da “mission impossible” tra divertimento e assurdità. (voto 6-) Importante citazione per Google, una Toyota, Uber. Ma il product placement più importante riguarda le merendine HoHos di cui un informatico è praticamente… dipendente.
Dopo il primo periodo sperimentale, cinefilo e “godardiano” tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, Philippe Garrel “nel corso degli anni 80 e 90, intraprende un itinerario insolito, esigente, segreto, che gli conferisce un posto marginale ma molto originale nel cinema francese del suo tempo” (Dictionnaire du cinéma, dir. Jean-loup Passek, Larousse). Oggi il regista è arrivato ad una trentina di lungometraggi e quell’itinerario continua a perseguirlo. I sui film si fanno sempre più intimi, spesso in bianconero, con attori amici o famigliari, riguardano sentimenti, rapporti di coppia, separazioni, dolore dell’intimo. E’ uno degli ultimi, forse l’ultimo, autori che, provenienti dai rinnovamenti degli anni 60 e dalle spinte della nouvelle vague, si sono poi ritirati verso un cinema povero, spesso autobiografico, girato con tempi lunghi e meditativi. Un cinema artigianale che in Francia ha trovato la sua maggior espressione nella “factory” di Paul Vecchiali e autori sodali. Il suo ultimo film è Il grande carro (2023), questa volta a colori e prende spunto molto dalla sua autobiografia. Ambientato nel mondo teatrale “a parte”, ovvero quello degli spettacoli di burattini (il teatro artigianale sta al grande teatro come il suo cinema a quello mainstream) che è antica tradizione della sua stessa famiglia. Per il suo film, che potremmo paragonare come concetto al Fanny e Alexander di Bergman (senza quella magniloquenza, va da sé), si circonda dei suoi tre figli, il già famoso Louis (attore e regista ormai conosciuto ovunque) e le due ragazze, Esther e Lena. I tre incarnano i figli di un mastro burattinaio e cercano di portare avanti la tradizione famigliare agli ordini del padre (figura che potrebbe rappresentare sia il padre di Philippe, Maurice Garrel anche lui attore, sia Philippe stesso) che però durante uno spettacolo muore. Alla compagnia nel frattempo si accoda il pittore Pieter, spiantato vagabondo che trova lavoro momentaneo con la compagnia, anima inquieta che potrebbe essere paragonato al giovane Philippe, quello degli anni Sessanta, il quale diventa padre accompagnandosi a Helene, una ragazza che poi diventerà la donna di Louis quando Pieter la tradisce per un’altra. Mentre Pieter va verso l’autodistruzione per non voler piegarsi al volere del mercato e della “normalità”, la compagnia si smonta (anche perché dopo l’intervento del padre fantasma un albero distrugge il teatrino dei burattini) e i tre figli trovano la loro autodeterminazione personale. Le anime di Garrel vengono riunite in una sorta di summa in questa storia molto famigliare, un grande carro su cui salgono affetti, aspettative, strade divergenti determinate anche dal destino. Film intenso seppur meno underground di altri film del regista. (voto 6+). Non mi pare vi sia product placement.