Siamo in una cava polverosa dove vengono prodotti mattoni. In Iran come ovunque questo tipo di lavoro sta per sparire, fatto tutto rigorosamente a mano, perchè "le case vengono fatte con altri materiali e il governo che aveva promesso aiuti non li ha mandati". Il film è strutturato partendo dal discorso del padrone della fabbrica che viene ripreso da diversi punti di vista ed intervallato con le storie personali dei lavoratori. Scopriamo così che anche in un microcosmo composto da una decina di persone appartenenti a quattro famiglie più un solitario "caporale" dove estrema povertà e bisogni primari da soddisfare (lavorare, mangiare, dormire) non lasciano spazio a voli pindarici, vi sono comunque tradimenti, amori contrastati, speranze deluse, e scontri soprattutto razziali tra azeri e curdi, perchè la guerra tra poveri è una costante di questo mondo. E allora lo sfruttatore, il padrone in apparenza dalla coscienza umanitaria, ne approfitta non pagando gli operai e sfruttandone le debolezze.
Nella seconda parte del film che illustra quello che succede dopo l'annuncio della chiusura esplodono le varie tensioni e si strappano le corde tese. Oddio in realtà esplodere non è il termine giusto in un film girato in sottotono, con lente carrellate e un bianco e nero poco contrastato, piatto e uniforme così come piatta e uniforme è la terra aspra e desolata, la Wasteland del titolo, dove sono costretti a sopravvivere i protagonisti. Un film che penetra sotto la pelle piano piano e vi resta. Un film che non entra sfondando la porta ma chiedendo permesso e poi non riesci più a farlo uscire da lì.
Nessun product placement presente in questo bel film iraniano presente alla Mostra di Venezia 2020.