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CINEMA
11 Agosto 2025 - 18:57

DIARIO VISIVO (Jean Gremillon 1)

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I primi film, i capolavori del periodo muto
DIARIO VISIVO (Jean Gremillon 1)

“Per lungo tempo definito maledetto, Grémillon è l’esempio di un cineasta integro, persino austero, ossessionato da una dimensione tragica, e che racchiude numerosi paradossi – non è questa caratteristica dei più grandi? Se così pochi ricercatori si sono interessati fino ad oggi a questo creatore essenziale, è perché fugge a tutti i tentativi di semplificazione; l’inquadramento in un sistema, questo peccato mortale dei ricercatori comuni, passa a latere di un tale gigante” (*) Un autore, quindi, di altissima qualità ma difficile da inquadrare secondo Philippe Roger, e per questo poco studiato e dimenticato. “Riguardo a Gremillon, nel nostro paese, non si tratterebbe proprio di oblio, perché il cineasta non ha mai avuto l’attenzione che a mio avviso meritava: poco lavoro critico sulla sua opera, scarse comparizioni nelle rassegne dei festival o in tv” (**). Per dire, il Mereghetti nel suo Dizionario dei Film 1996 recensisce un solo film di Gremillon…

Cerchiamo qui di dare un piccolo contributo con qualche parola sulle sue opere cominciando dal suo esordio nel lungometraggio di fiction dopo che nei primi anni degli anni Venti del Novecento aveva iniziato con parecchi cortometraggi e documentari poetici e difficili da reperire se non persi del tutto. Maldone (1928) è questo esordio e già lo avevo recensito nella mia personale rassegna critica sul cinema francese degli anni Venti. “Quello che resta di Maldone, circa un terzo della versione iniziale persa, costituisce uno dei capolavori assoluti di quello che la storia del cinema ha riconosciuto come un impressionismo cinematografico” (*) (voto 7,5)

Gardiens de phare (1928) fa parte di quel cinema “regionale” che vide Eustache, Feyder e Delluc come protagonisti di una stagione esaltante per il cinema. Un padre ed un figlio lasciano le coste della Bretagna per passare un periodo di tempo come guardiani di un faro. Prima di partire il figlio, che lascia sulla terraferma l’innamorata Marie (ancora la Athanasiou compagna del regista prima di esserlo stata di Antonin Artaud) e la madre, viene morsicato da un cane rabbioso. I due, confinati sull’isola, isolati anche da una tempesta, si ritrovano a dover fronteggiare la “rabbia” con cui il cane ha infettato il più giovane senza poter far nulla per chiedere soccorsi. Il figlio diventa sempre più instabile psicologicamente fino ad attaccare il padre che, dopo una breve lotta, lo fa precipitare dal faro sugli scogli. Un dramma famigliare, un doloroso poema luttuoso che trova il suo acme emozionale nel montaggio alternato del dramma che si compie e della felicità delle donne restate a casa che, vedendo il faro riprendere ad illuminare dopo che era stato spento per un certo periodo, sorridono per i loro cari che credono salvi. Il film è di una bellezza visiva notevole, tra il documentario e lo sperimentale. A Grémillon, più che la semplice storia, interessano le riprese etnografiche (i riti e i costumi bretoni), quelle paesaggistiche (la natura di ruvida bellezza del mare in tempesta e delle scogliere), quelle tecnologiche (il faro, i suoi meccanismi, la sua luce di tecnica magnificenza). “Gardiens de phare tiene assieme suggestioni espressioniste e surrealiste per sfociare in una fiaba sulla brutalità nascosta dell’uomo” (**). “Gardiens de phare non fu un melodramma ma un’opera irrobustita dagli insegnamenti dei documentaristi sovietici e tedeschi e in cui i due protagonisti agivano nell’ambiente quasi unico di un faro e della sua scala.” (***) “Jacques Feyder, con il quale Grémillon ha evidenti affinità, gli affida la realizzazione di Gardiens de phare, di cui ha elaborato sceneggiatura e découpage. In questo raro esempio di Kammerspiel francese, Grémillon, da un dramma derivante dal repertorio del grand-guignol, trae una tragedia potentemente umana. Ancora una volta – e la maggior parte dei suoi film seguono questa strada -, dà ad una fiction il peso del documentario, sviluppa un romanzesco senza romanticismo, anima dei personaggi determinati dal loro ambiente sociale, subordina il loro destino al loro mestiere, fa nascere il tragico in seno al quotidiano” (IV) (voto 7)

Le sequenze della cella-camerata della Cayenna che sembrano anticipare Jean Genet e Jean Vigo con quei carcerati dai corpi nudi e tatuati, quel grosso orso buono di Pierre Alcover che stringe tra le grandi mani la testolina di Nadia Sibirskaia, le danze dei neri nel sottofinale che ricordano un’estetica sperimentale del cinema muto per fortuna ancora viva in queste prime pellicole sonore, il primo piano piangente della dolce Lise (Sibirskaia) che vede infrangersi i suoi sogni di normalità. Sono i picchi del melo-noir La petite Lise (1930) film sonoro di Jean Gremillon che già agli albori ne ha scoperto le potenzialità. Mentre visivamente resta ancorato alla potenza del periodo d’oro del muto (gli anni Venti del Novecento), tanto che i dialoghi potrebbero essere tolti senza troppo perdere del senso, il canto dolente dei carcerati ad inizio film e quelli del festante gruppo di gente di colore che sottolinea in contrasto il dolente momento in cui Berthier (Alcover) si riconsegna nelle mani della giustizia (sostituendosi alla figlia) dimostrano come Gremillon abbia capito cosa in più può dare il sonoro: “lui entra nel commissariato e si abbassa lentamente, si appoggia alla ringhiera e parla al poliziotto, non sentiamo nulla, la camera s’allontana dolcemente, si direbbe che stia sussurrando la sua confessione come un confidenza, si direbbe che stia parlando ad un amico (…) Nella curvatura lenta della sua schiena, in questa confessione amichevole, nella musica gioiosa di un dancing che si sente in sottofondo perché la vita continua, proviamo tutta la compassione del mondo” (*). Personaggi buoni d’animo e d’affetto, il padre, la figlia e il fidanzato, costretti dagli eventi a peccare, a diventare assassini. Un delitto e castigo dei sobborghi parigini. Berthier che ha scontato la sua condanna alla Cayenna per aver ucciso la moglie per gelosia (“ha ucciso mia madre che lo ha reso infelice” dirà una “comprensiva” Lise Berthier) torna alla casa in cui ritrova la piccola Lise. Lei fa credere di essere dattilografa ma in verità è una prostituta che ha trovato nel giovane André una speranza di fuga dalla sua misera vita. Ma servono soldi e i due pensano di rapinare un usuraio ebreo. Ne nasce una colluttazione in cui Lise uccide l’usuraio per salvare André. Berthier decide di accollarsi tutte le colpe per espiare anche la sua vita passata che ha messo nelle condizioni che sappiamo la figlia Lise. “Il padre torna dalla galera e ritrova la figlia come si ritrova un’amante. Lei sussurra: <papà, mio paparino…> mentre la camera si allontana sulle scale come per non disturbare questa coppia di amanti che chiudono la porta dietro di loro” (*) “Grémillon inventa in diretta il realismo poetico” scrive Stephane Delorme sui Cahiers du Cinema dell’ottobre 2013. “La petite Lise di Jean Grémillon, su sceneggiatura di Charles Spaak, descriveva teatralmente un mondo sinistro: un forzato, una ragazza, dei delitti. Questo ritorno a un certo naturalismo era in anticipo sui tempi. Il film fu fischiato nonostante le sue qualità” (***). “Qui siamo al cinema puro. Voglio dire che nessun’altra arte non riuscirebbe, nell’immobilità o nella progressione, raggiungere un tale sentimento di pienezza, e che, raramente, lontano da tutte le cerebralità, agli antipodi dell’avanguardia, un regista sia andato così in profondità nell’illustrare la sua arte. Fin dal suo primo film parlato Grémillon dimostra non solo grande maestria ma soprattutto un profondo desiderio di avvicinarsi al cinema attraverso il suo lato più specifico” (V) (voto 7,5) Oltre alla solita pubblicità Byrrh, nel film troviamo come product placement delle insegne luminose che riguardano il Palais de la Nouveauté, Mobiliere par millene, e le Galeries Barbes.

Dopo un film su commissione disconosciuto dal regista, Pour un sou d’amour, anche il successivo film di Jean Gremillon ha vicissitudini non facili. Dainah la metisse (1932) è un film di cui “non sapremo mai com’era il montaggio iniziale. Dimezzato già prima dell’uscita in sala, il film si è trasformato, suo malgrado, in un’anomalia attraversata da lacune che paradossalmente accentuano la bellezza di quest’ora di poesia nera” scrive Xavier Jamet nel catalogo de Il cinema ritrovato 2018 (Cineteca Bologna) dove il film è stato ripresentato sul grande schermo. Il film concentra nei suoi 51 minuti dieci anni di ricerche visive delle avanguardie cinematografiche. Da Vertov (immagini di parti della nave e di marinai che vi lavorano), al cinema francese degli anni venti (le scene di danza e le feste), il jazz di Josephine Baker (nelle canzoni e nella meticcia protagonista, Laurence Clavius), il surrealismo di Bunuel e co. (le sequenze dello spettacolo del mago di colore di fronte ad un pubblico in maschera), l’espressionismo (le ardite angolazioni di ripresa sfruttando le linee delle scale del locale macchine). La storia è una specie di noir in cui la coppia di colore con il mago, marito della irrequieta e vogliosa di divertimento Dainah, si esibisce su una nave di lusso. Sulle grazie spudorate della donna mette gli occhi il solitario e grezzo meccanico Charles Vanel che, rifiutato, probabilmente getta la ragazza in mare. Suicidio o omicidio? Per il mago non ci sono dubbi e la vendetta arriva rapida. Ma è la parte visiva che abbaglia lo spettatore che ancora sa compiacersi della ricerca cinematografica; e poi la presenza della scatenata Laurence Clavius al suo unico film (“Dainah è la misteriosa Laurence Clavius, attrice meticcia dalla bellezza irreale, un solo film e poi scompare, un destino sulla falsariga del film, fugace e inafferrabile” ancora Xavier Jamet). Un film clamorosamente ignorato anche da chi di Gremillon ha scritto e che lo ha amato (Vecchiali, Sadoul…). (voto 7+) Inquadrato più volte un orologio da muro Paul Garnier, possibile product placement.

(*) Jean Grémillon ou la Poésie de l’absolu, Philippe Roger, Cahiers du cinema ottobre 2013, traduzione mia

(**) Jean Grémillon. Il diseguale, la ricerca, Tullio Masoni, Cineforum 581

(***) Georges Sadoul, Storia del cinema mondiale, Feltrinelli Economica, 1977, Traduzione Mariella Mammalella

(IV) Dictionnaire du cinema, Jean-Loup Passek, Larousse, traduzione mia

Stefano Barbacini

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