Tra i film di fresco restauro presentati dal Festival del Cinema Ritrovato di Bologna 2025 vi è la commedia satirico-grottesca El inquilino (1957) che punta il dito, sorridendo, sul problema della mancanza di alloggi e della speculazione edilizia nella Spagna del dopoguerra durante la dittatura franchista. Una famiglia di quattro persone (due coniugi e due bambini) deve essere sloggiata dall’appartamento dove abita perché il condominio deve essere demolito. Evaristo (Fernando Fernan Gomez), il padre, cerca di guadagnare tempo (e lo fa grazie all’aiuto del capocantiere e degli operai della ditta di demolizione) per trovare un altro alloggio. Purtroppo non ha i soldi per comprare un appartamento e le case in affitto o non ci sono proprio o ci si specula sopra. Anche chiedere aiuto a politici e amici ricchi, boriosi ed ipocriti, non serve. La situazione si fa disperata, il rischio di restare per strada è reale. Il film oltre ad essere mirabilmente restaurato, è presentato in una copia completa come solo nelle prime proiezioni dopo la sua uscita si è potuto vedere. Infatti la censura voluta del Ministero degli alloggi e dell’edilizia ha deciso che molte parti fossero tagliate (e dopo la proiezione vi è una coda che spiega quali sono, alcuni tagli sono veramente ridicoli), che il finale fosse cambiato e che all’inizio del film fosse messa una didascalia che diceva che per il problema degli alloggi i cittadini devono essere solidali tra loro e che, in pratica, il Ministero ha fatto tutto quello che ha potuto. Evidentemente il film non era poi così grottesco ma metteva il dito in una piaga reale. Tra l’altro i tagli riguardavano anche le battute polemiche sulla condizione operaia e sulla solidarietà tra poveri. Il regista Josè Antonio Nieves Conde, conosciuto per alcuni horror e alcune commedie sexy anche in Italia dagli amanti dei b-movies, qui ci regala una brillante commedia “all’italiana” (solo dell’anno prima è “Il tetto” della coppia De Sica-Zavattini) che bisognerebbe riscoprire con annesse le modifiche subite dal film a dimostrazione della stupidità dei governi autoritari e censori. (voto 6/7) Si passa spesso davanti a un bar dove vi sono ben visibili le pubblicità di Coca Cola (una canzone denigra la Pepsico come simbolo negativo dell’americanizzazione della Spagna), Cinzano, La Casera e, soprattutto, Martini, product placement del film.
Partendo da un fatto di cronaca che metteva in evidenza la condizione femminile in America agli inizi del secolo (una donna ha ucciso il compagno perché l’ha lasciata ma è stata poi scagionata grazie all’abilità del suo avvocato che ha dimostrato come la donna, Gabrielle, fosse costretta dall’uomo a prostituirsi per lui), Dorothy Davenport Reid ha voluto produrre il film Red Kimona (1925, infatti fa parte della sezione Cento anni fa del Festival Il Cinema Ritrovato XXXIX), un film femminista e fatto principalmente da donne. La storia da cui nasce il film è stata trasposta da un articolo della giornalista e scrittrice Adela Rogers St. Johns e per la sceneggiatura della pellicola ritroviamo la Dorothy Azner, non ancora regista, di Falena d’argento. La storia non risparmia nulla né al mondo patriarcale e allo sfruttamento del corpo delle donne, né al mondo dei ricchi comprese le donne ricche. Infatti, una volta che la donna è stata rilasciata, viene accolta da una assistente sociale che la tiene con sé fino a che le serve per farsi pubblicità sui giornali, una volta che non fa più notizia le da il benservito e Gabrielle non riuscirà più a trovare lavoro per il suo passato da prostituta rischiando di tornare sulla strada (il finale felice dove lei trova l’amore non vanifica del tutto il discorso precedente). Come giustamente ha fatto notare Shelley Stamp della University of California, Santa Cruz, che ha introdotto il film in sala, l’argomento della prostituzione non è trattato, come in quasi tutti i film precedenti sulle schiave sessuali, come se la costrizione al meretricio sia dovuta a malviventi che rapiscono povere donne e le costringono, ma la visione è più ampia e riguarda lo sfruttamento dell’uomo con cui ci si accompagna e il discorso economico. Ma il film non sarebbe così bello se non si sentisse anche la mano di Walter Lang, il regista, che dirige con una certa originalità e perizia. Menziono il cappello femminista iniziale e finale della stessa Dorothy Davnport Reid che parla direttamente al pubblico; la costrizione alla prostituzione che ci è mostrata semplicemente facendo vedere in uno specchio la donna che indossa una vestaglia rossa e il frame è colorato di rosso (a mano) (il kimono rosso come i lampioni rossi alla fine del film simboleggiano la professione a… luci rosse appunto); la corsa in auto per raggiungere Gabrielle da parte dell’autista che se ne è innamorato, veramente spettacolare; i primi piani drammatici del viso e degli occhioni tristi e spalancati della protagonista Priscilla Bonner. (voto 7) Il magnate delle auto Ford che è citato, una pubblicità dell’Eastside Beer, the perfect drink, la Wester Union sono il product placement in questo film.
Ancora dalla Svezia arriva I dimma dold (In the mist, 1953) del regista Lars-Eric Kjellgren nella sezione Norden Noir del festival Il Cinema Ritrovato 2025. Come specificato sul catalogo del festival da Tora Berg il film è “Ispirato a Laura (1944) di Otto Preminger e illuminato dalla suggestiva fotografia in bianco e nero di Gunnar Fischer, collaboratore abituale di Ingmar Bergman”. In effetti il film di Preminger è citato direttamente in quello di Kjellgren ma solo nella prima parte si può apparentare (alla lontana) al capolavoro americano. Qui vediamo la protagonista Lora (Eva Henning, era la pianista suicida in Flicka och hyacinter di cui abbiamo parlato nei giorni precedenti) uccidere con un paio di colpi di pistola, nella sequenza iniziale, il marito Walter, poi la vediamo girovagare in fuga per le strade notturne, ossessionata dai volti dei passeggeri di un autobus (in una bella sequenza quasi sperimentale), essere accolta in casa da una prostituta e in un flashback spiegare cosa la ha spinta ad uccidere l’uomo, un cacciatore di dote che esplicitamente la tradiva con una donna, Jimmie, che frequentava abitualmente la loro casa e che sottraeva buona parte degli averi di Lora per darli a quest’ultima. Ma le cose non sono come sembrano, vedremo che sono ben diverse, e qui inizia la seconda parte completamente differente dalla precedente, quando il detective incaricato del caso (che si innamora della protagonista, cosa non consueta) scopre che l’uomo era già morto… avvelenato. Questa seconda parte potrebbe essere accomunata alle pellicole tratte dai libri di Agatha Christie, quindi più giallo da salotto che noir. E il film ne risente. Bisogna notare dopo la visione di una manciata di questi film di genere che furono prodotti in Scandinavia che il noir è principalmente utilizzato per parlare della difficoltà dei rapporti tra uomini e donne, e qui non siamo molto lontani da… Bergman. (voto 6) Una Vespa e il cognac Renault carte noir possibile product placement del film.
Hataraku ikka (Tutta la famiglia lavora, 1939) ha una storia diversa dagli altri film del Naruse “prebellico” che è in rassegna al Festival Il Cinema Ritrovato di Bologna 2025. Non si tratta più di matrimoni o mariti che hanno una doppia famiglia, di tradizione o modernità, si tratta della povertà che non permette agli uomini di progredire, di avere la possibilità per una vita diversa e felice. La famiglia di Ishimura è composta dalla moglie e da un… esercito di figli. Per mantenere tutti bisogna che tutti in famiglia lavorino (almeno chi ha il minimo di età per farlo). E così avviene fino a quando il figlio maggiore Kiichi vuole cambiare le cose mettendosi in testa di smettere di lavorare per continuare gli studi e avere così un lavoro migliore per potersi permettere una moglie, tutto il sistema entra in crisi. Il padre vorrebbe accontentare il figlio a costo di sacrifici ma se poi anche gli altri figli volessero seguirlo? Tratto da un romanzo proletario che critica la società giapponese (altro che ascensore sociale…) è girato in modo vicino al neorealismo, vengono eliminati gli scambi melodrammatici e i primi piani intensi che caratterizzavano le altre opere. Purtroppo la pellicola proiettata non rende bene la cupezza e l’oscurità del girato di Naruse e influisce sul giudizio del film. “Naruse, che proveniva a sua volta da un ambiente umile, disse di sentirsi a proprio agio con la rappresentazione della povertà e indicò il film come uno dei suoi preferiti. Senza dubbio realizzò un’opera dal realismo sobrio e innovativo, allontanandosi dagli eccessi dei suoi primi sonori per adottare un linguaggio che ricorda maggiormente il suo stile del dopoguerra” (dal catalogo del festival).
Una sezione tra le tantissime presenti al festival Il Cinema Ritrovato XXXIX che non avevo ancora frequentato è quella dei film dedicati a fenomeni musicali intitolata Piccolo grande passo: canzoni e società. Purtroppo lo spettatore di questo festival deve rassegnarsi a selezionare e a non poter vedere tutto quello che potrebbe interessargli per troppa offerta di qualità. Oggi però ho recuperato due documentari su due periodi musicali che mi hanno sempre interessato. Il primo è Festival (1967) che documenta il Newport Folk Festival nelle sue edizioni dal 1963 al 1966. Vediamo in immagini originali quello che viene raccontato nel film A complete unknown (James Mangold, 2024) su Bob Dylan. Quindi l’ideatore del festival Pete Seeger (impressionante come sia praticamente uguale all’Edward Norton del film del 2024), la star Joan Baez, e innumerevoli grandi artisti del folk e del blues di quel periodo. E naturalmente Dylan che, come raccontato nella fiction di Mangold, qui ha la sua svolta elettrica cantando Maggie’s farm e lasciando basito il pubblico. L’altro è The decline of western civilisation (1981) di Penelope Spheeris che “restituisce l’energia, la rabbia e lo spirito DIY dell’ambiente punk e hardcore di Los Angeles tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, in aperta ribellione contro il sistema americano dominante. Il documentario si concentra sulla prima ondata di gruppi storici dell’hardcore punk come Black Flag, Circle Jerks, Fear, Germs e X. La regista Penelope Spheeris e la sua troupe si immergono in un ambiente caratterizzato da aggressività e rabbia” scrive Karl Wratschko sul catalogo del festival e ho poco da aggiungere se non che di questa musica mi sono nutrito negli anni giovanili e rivedere questo documentario mi fa quasi male, da allora sono passati 45 anni di vita. Due documentari fondamentali per chi ha conosciuto questi due periodi musicali ma anche per chi non li ha vissuti. Per capire e per bearsi di canzoni e musiche fantastici. (voto 7 ad entrambi) Product placement di birra Colt 45