Vi sono anche vari film che vedono l’assalto degli animali che si vendicano degli interventi sconsiderati degli uomini senza che questi, gli animali, diventino giganteschi o provengano dal passato. Ad esempio, seguendo la traccia di John Gentile nel suo articolo su Scary monsters Magazine n. 29, vi sono i derivati da Gli uccelli di Hitchcock, come The deadly bees (1966), titolo che risalta la valenza horror del film, che in italiano diventa Il mistero dell’isola dei gabbiani disinteressandosi delle api, grandi protagoniste, per concentrarsi sul lato mistery e sul luogo, l’isola in cui va a cercare di riprendersi da un esaurimento nervoso una star della canzone inglese Vicki Robbins, interpretata da Suzanna Leigh. Entrambe le “anime”, quella horror e quella mistery, sono presenti in effetti nel film, prodotto dalla Amicus, scritto da Robert Bloch (Psycho) e diretto da Freddie Francis, uno degli uomini di punta della casa di produzione inglese, “rivale” della Hammer. Bizzarra e divertente la scelta di non negare la derivazione dal film di Hitchcock chiedendo ai The Birds di partecipare al film in carne ed ossa esibendosi in That's All That I Need You For. Il film però nasce male, la sceneggiatura scritta da Bloch viene rimaneggiata e stravolta per volontà di Freddie Francis: “Iniziammo con una buona sceneggiatura di Robert Bloch. Io ero all’ospedale per un’operazione quando Max [Rosenberg ndr] arrivò in Inghilterra e il regista Freddie Francis gli disse che voleva riscrivere tutta la sceneggiatura. Io dissi a Max di prendere un altro regista e di mantenere lo scritto di Bloch, ma lui disse che la Paramount voleva Freddie e che dovevamo lasciargli riscrivere il tutto. Quando uscii dall’ospedale, vidi che Freddie aveva girato due ore di film che non avevano alcun senso come tutta la sceneggiatura da lui riscritta” (Milton Subotsky, insieme a Rosenberg componeva il duo a capo della Amicus, dichiarazioni riportate su Amicus, The studio that dripped blood, Allan Bryce, DarkSide ed.). Il film in effetti è piuttosto scombinato nel raccontare come la protagonista Vicki Robbins si trovi a dover fronteggiare sciami di api assassine, modificate da un apicoltore che fa sperimenti sulle api stesse. Nonostante ciò il film diventò un piccolo cult e ha qualcosa di attrattivo nella sua ambientazione e nei suoi effetti molto b-movie (sovraimpressioni di api di plastica troppo colorate assieme a quelle vere), come scrive Allan Bryce sulla pubblicazione già citata: “The deadly bees è girato tecnicamente in modo incompetente, è una pellicola scadente è sembra come se il regista fosse addormentato durante tutta la produzione e come se fosse montato da una scimmia. Ma (…) è una roba di gran divertimento”. (voto 5/6) Product placement per Gold Label ben in vista nel bar del paese.
Di peggio, con The swarm (1978), fece Irwin Allen, regista definito da John Gentile come “il signore dei disastri”. Questo non è un film a basso budget come il precedente ma ha ambizioni di catastrofico di prima categoria, basti pensare che tra gli attori sono stati ingaggiati Michael Caine, Richard Chamberlain, Richard Widmark, Olivia de Havilland, Ben Johnson, José Ferrer e Henry Fonda! Il regista e produttore, Allen, si inventa (con l’aiuto del romanzo di Arthur Herzog) l’arrivo in America, nei pressi di Houston, di un enorme sciame di api velenose provenienti dall’Africa. Dopo che queste hanno sterminato tutti gli impiegati di una base militare, arriva l’entomologo Brad Crane (Caine che riprende la flemma dei suoi film di spionaggio) a supportare il generale Slater (Richard Widmark) per affrontare il problema. Allen innesta una serie di trame e sottotrame che appesantiscono il film tra esperimenti falliti, antidoti inefficaci, disastri causati dalle api come un treno che deraglia, i bambini di una scuola uccisi mentre si gustano un leccalecca, una centrale nucleare rasa al suolo dal fuoco con cui gli assaliti cercano di uccidere le api, una famiglia ricoperta di api durante un picnic. Muoiono quasi tutti, tranne Crane che alla fine scopre come richiamare le api tutte in un luogo e dar loro fuoco. Sembra di assistere per ritmo e età della maggior parte degli interpreti (star di Hollywood al tramonto) ad uno spettacolo girato all’interno di un gerontocomio con l’apice di una storia d’amore a tre con al centro la sessantenne sfiorita de Havilland e due coetanei che smaniano per lei… “Questo film soffre di una recitazione legnosa, ma gli effetti sono abbastanza ben fatti. Sfortunatamente, il film fu così costoso che non riuscì ad ottenere un profitto dalla distribuzione” (John Gentile). “Si potrebbe far passare il film come un innocuo scherzo, se non fosse costato dodici milioni di dollari, ventidue milioni di api e molti anni di vita di qualcuno” commentò il critico del Guardian. “Un magnifico cast di famose stars cercano di superarsi mentre leggono terribili dialoghi e vengono punti” (Psychotronic Encyclopedia of Film). (voto 5-)
Se le api fanno paura per il loro doloroso pungiglione, i topi oltre che paura per i loro morsi fanno anche ribrezzo. Non a Willard, il protagonista di Willard e i topi (1971) che diventa amico di alcuni di essi e li userà per vendicarsi di chi lo tratta male e lo sfrutta, il suo datore di lavoro Martin (Ernest Borgnine che assieme ad un’altra star del passato, Elsa Lanchester, è stato chiamato a dar lustro ad un buon cast). Willard (Bruce Davison) è un solitario che vive con la madre, frustrato da un lavoro che non gli dà soddisfazioni, che si affeziona per questo ai topi che sfama e con cui riesce ad entrare in sintonia. Vive in una grande casa che Martin vuol costringere a vendere e trova solo nella collega Joan (una giovanissima Sondra Locke) un po’ di complicità e affetto. Purtroppo i topi proliferano in gran numero e per Willard non finirà bene quando non riesce più a nutrirli. Il film è uno pseudo-horror piuttosto fiacco che non riesce mai a creare un climax decente e diventa una favoletta che il molto medio Daniel Mann (un paio di acuti nella sua carriera con Piangerò domani e La rosa tatuata e qualche buon film televisivo per il resto opere non certo memorabili) non riesce a far diventare qualcosa di più. Il film fu comunque un successo perché evidentemente sollecita ma non sconvolge. “La toccante storia di un ragazzo e dei suoi topi cattura il pubblico premiandolo al box office, ma la mancanza di stile del film gli impedisce di non essere niente più che un thriller di secondo piano” (Leonard Maltin). “La regia spenta di Mann rende soporifero ciò che poteva essere un piccolo e curioso thriller” (Mereghetti). Coca Cola, Ford e Brillo nel product placement del film.
“Uno dei film più ridicoli mai fatti che riguarda un gruppo di conigli giganti che attaccano un paesino. I conigli naturalmente saltano su di un set di miniature in slow motion! (…) Il poster del film domanda ‘quanti occhi il terrore può avere?’. Mostra un paio di occhi giganteschi, ma non dà indicazioni della presenza di conigli. Sembra che i produttori fossero imbarazzati a mostrare di cosa trattava il film!” così parla John Gentile dello stracult Night of the lepus (La notte della lunga paura, 1972). Un film che annoverava tra le sue fila attori come Stuart Whitman, Janet Psyco Leigh, Rory Calhoun e Kelley “Dottor McCoy di Star Trek” DeForest, non proprio degli sconosciuti, ma che, diretto dal regista televisivo William F. Claxton, sembra poco più di un telefilm con ambientazione tipo La casa nella prateria, in cui si cerca di ricreare i topoi del cinema con animali innocui che, modificati geneticamente, diventano feroci assassini. Ma un “coniglio feroce” è un ossimoro che proprio non si può sentire. Il film si apre con un “documentario” sull’invasione infestante dei conigli in una zona dell’Arizona. I fattori stanno pensando a come difendersi dagli animali che distruggono i raccolti. Uno di loro chiede aiuto alla coppia di scienziati Roy e Gerry Bennett (Whitman e Leigh), i quali per rendere infertili i conigli decidono di modificargli il dna commettendo però un errore che li trasforma in esseri giganteschi. Il film ha tutti i difetti delle opere con pochi soldi e poca fantasia. Per allungare il brodo si appiccicano immagini di archivio, si ripetono infinite volte le stesse sequenze (i conigli che corrono, i corpi degli umani uccisi resi con quattro pennellate di vernice rossa), si ideano complicati metodi per uccidere le creature malvage, qualche spruzzatina di dialoghi moralistici e una lentezza di fondo (dovuta ad un montaggio che statico è dir poco) che toglie qualsiasi pathos e divertimento. “Tollerabile fantascientifico che si adatta ad una formula ormai frusta” (Hallywell). “Per chi soffre di insonnia e con pretese molto basse” (Judith Crist) (Voto 5-) Un camion della “Shade Refrigeration Lines” (esiste/eva?), una Dodge e un camper Chevrolet nel product placement.
Molto più interessante Fase IV: distruzione terra (1974), unico lungometraggio diretto da Saul Bass, uomo molto attivo comunque nel cinema come scenografo e, soprattutto, come uno dei più famosi “titolisti” di tutti i tempi. Fase IV è un film di fantascienza che il regista prende terribilmente sul serio riunendo due scienziati dentro ad un igloo di metallo dove concentrano gli studi su formiche che hanno comportamenti anomali a causa dell’inquinamento e dagli sconvolgimenti degli ecostistemi. Scopriranno che gli insetti stanno diventando tremendamente intelligenti e che si apprestano a… conquistare la terra. Il film è girato come fosse un documentario di un entomologo con tantissime scene macro del laborioso e diabolico lavoro dei piccoli animaletti. Questa aria da vecchia fantascienza, girata con professionalità ed inventiva avvince noi spettatori anche per lo studio non banale del comportamento psicologicamente antitetico dei due studiosi, uno concentrato solo sul risultato dei suoi studi passando sopra a tutto, l’altro più umanamente empatico. In mezzo a loro una ragazzina che arriverà all’igloo dopo che la sua famiglia è stata sterminata da un veleno buttato dagli scienziati per sconfiggere le formiche. “Buoni effetti speciali e una grande sceneggiatura fanno di questo quieto horror qualcosa di intrigante, sebbene non fece molti soldi” (John Gentile). Apprezzatissimo (giustamente) da Kezich: “opera in qualche modo destinata a restare nella storia del cinema apocalittico: per la bizzarria dello spunto di partenza e per l’implacabile e meticolosa accuratezza dell’esecuzione.” “Grandioso thriller fantascientifico che ha per star innumerevoli formiche reali (…) che possono divorare la carne di animali (o umani) in pochi secondi, ipnotizzare le persone e distruggere computer e macchinari rosicchiandone i fili” (Psychotronic Encyclopedia). “Bass ha fatto un SF insolito e inquietante, visivamente suggestivo, che si lascia leggere in chiavi diverse. Suspense ed effetti speciali efficaci” (Morandini) (voto 7)
Altro film che sicuramente divertirebbe gli entomologi è Bug, insetto di fuoco (1975), ultima produzione di William Castle, regista e produttore di B-movies per cui studiava inusuali strategie di marketing, definito da John Waters “the greatest showman of our times”, che morirà un paio di anni dopo. A dirigere vi è Jeannot Szwarc, regista nato in Francia ma che ha sempre lavorato negli States, principalmente per la tv (ha diretto episodi di Colombo, Baretta, Kojak…) e quando è riuscito a girare opere cinematografiche lo ha fatto principalmente per B-movies horror con alterne riuscite. Come in Fase IV vi è un’attenzione estrema sulla macrofotografia per mostrare in questo caso non le formiche ma le blatte. O meglio un tipo particolare di questi insetti, fantascientifico. Dopo un grosso terremoto, da una fenditura del terreno riaffiorano dal centro della terra questi scarafaggi che non sono comuni. Sono infatti in grado di accendere fuochi creando una scintilla, si cibano di cenere e non possono riprodursi. Causano grossi danni nella cittadina in cui appaiono (incendi a case e umani) e vengono studiati dal solito scienziato folle, James Parmiter (Bradford Dillman). Sebbene destinati all’estinzione perché non sopportano la pressione atmosferica e perché come detto non possono figliare e nonostante ne uccidano la moglie, Parminter, ossessionato dalla scoperta scientifica, salva una delle blatte femmina, la inserisce in un casco da palombaro dove la pressione è controllata e la fa accoppiare con uno scarafaggio normale! (Una roba talmente assurda che va beh…). Ne usciranno degli ibridi che oltre a far fuoco si cibano di carne cruda, anche umana e diventano senzienti comunicando con Parminter: scrivono sui muri disponendo i loro corpi a forma di lettere! Lasciando perdere il senso della trama il film non si fa dispiacere del tutto, le sequenze delle blatte assassine non sono male, vi è un po’ di tensione e quel piacevole senso di scorrere della vita in una zona scarsamente abitata che diventa quasi mistica. (voto 5/6)