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CINEMA
25 Settembre 2025 - 23:09

LA DAMA CON L'OMBRELLINO

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La figlia di Ryan (David Lean, GB, 1970)
LA DAMA CON L'OMBRELLINO

C’è tutto David Lean nel girare un film che fondamentalmente parla di un adulterio e farlo durare tre ore e venti. E’ vero che è intrecciato con le vicende delle ribellioni irlandesi contro gli inglesi degli anni ’10 del Novecento e quindi vi è un coté politico importante, ma la durata è monstre per quello che viene raccontato. E il tutto, però, tiene perfettamente. La figlia di Ryan  (1970) è un film che a vederlo si direbbe girato negli anni ’50 del secolo scorso, ovvero una quindicina di anni prima. Questo è l’aspetto visivo che ha e, se non fosse per qualche rapporto sessuale un po’ più esplicito di quello che si sarebbe potuto vedere nella Hollywood degli anni ’50, sarebbe difficile datarlo. D’altronde Lean è un classicone ma, attenzione, non monolitico. Infatti nel film vengono creati personaggi che raccolgono l’eredità e le suggestioni di altri registi, principalmente Chaplin e Fellini. David Lean ha inventato il post-moderno prima che questa definizione venisse sdoganata.

Il racconto, serissimo, è infatti venato da un’aria di leggerezza che non cozza però con il dramma. La giovane Rosy Ryan (Sarah Miles di dolce tristezza, moglie di Robert Bolt, il drammaturgo sceneggiatore del film), figlia del proprietario del bar di un paesino irlandese in riva al mare, che si trova in mezzo al contrasto di alte scogliere e spiagge sabbiose, è infelice e inquieta. Innamorata del maestro del paese (vedovo e serio) più grande di lei Mr. Shaughnessy (un Robet Mitchum professionale ma a mio parere un po’ fuori ruolo, forse perché sono condizionato da altre sue interpretazioni più… virili) gli si dichiara. Lui non vorrebbe per la differenza d’età ma l’attrazione e, probabilmente la mancanza di una donna da troppo tempo, lo catturano portandolo al matrimonio. In mezzo ai rozzi compaesani si celebrano le nozze e tra loro sembra andar tutto bene, i primi tempi. Rosy però è malata di bovarismo e si ritrova ancora una volta infelice nella piattezza delle sue giornate passate a meditare guardando il mare e passeggiando per la spiaggia. Quando nel luogo arriva un giovane maggiore inglese, Doryan (Christopher Jones), pieno di ferite fisiche (è zoppo) e psichiche (ha incubi della guerra combattuta) ed è subito odiato da tutti gli irlandesi del posto, lei se ne innamora e ne diventa l’amante. Comincia ad essere osteggiata e disprezzata da tutti tranne che dal marito e dal prete, Padre Collins (un immenso Trevor Howard) che non condividono certo la scelta della donna ma neppure la colpevolizzano.

Poi il film si addentra nel conflitto irlandese-inglese in sequenze memorabili di tempeste marine, munizioni che arrivano sulla spiaggia sotto il diluvio, con il paese che come una fiumana umana si mobilita per aiutare i ribelli che vedono come eroi e il finale con la loro cattura da parte degli inglesi che li porteranno verso una morte per impiccagione. Rosy viene accusata di aver tradito i rivoltosi irlandesi spifferando la loro posizione al maggiore suo amante e viene spogliata e rapata in una sequenza selvaggia. In verità a tradire è stato il vigliacchissimo padre di lei. Tutta la vicenda è attraversata dalla figura dello scemo del villaggio, mostruoso di fattezze e zoppo, che rappresenta un po’ il folletto shakespeariano, un po’ l’ingenua verità e un po’ il destino.

Molte immagini di dettagli della natura e degli elementi che rappresentano metafore degli umori umani (già detto del mare in tempesta, aggiungiamo le impronte sulla sabbia e questa sulla bombetta chapliniana di Rosy che svelano l’inganno, una ragnatela che rappresenta la cattura nelle trame del sesso fedifrago, un fiore che perde i petali come lei la purezza, le alte scogliere che rappresentano l’impossibilità di andarsene…) per una regia magistrale.

“Amore e guerra, conflitti di anime in un paesaggio tempestoso o solare, introspezione a largo raggio” scrive Gianni Amelio in un articolo sul film in una rubrica sul cinema “maledetto” intitolata Belli e Dannati sulla rinnovata rivista Cineforum (Numero 0 Nuova serie), articolo che mi ha dato stimolo a rivedere l’opera. “C’è convinzione, ardore sincero. Solo in apparenza le due anime (l’intimismo e la spettacolarità) sembrano non amalgamarsi. Questo succede perché Lean e Bolt si prendono ogni rischio (…) La forza di David Lean in La figlia di Ryan sta nella malinconia non rassegnata, nel gelo che spegne il calore degli affetti senza cancellarli. Difficile ricordare un Robert Mitchum così dimesso, non più sfrontato, gangster, senza vergogna.” Proprio Amelio ci ricorda come il film fu massacrato dalla critica americana di allora (che lui definisce composta da soloni molto narcisi) che parla di budget sprecato, di film eccessivamente magniloquente per una piccola storia (non capendo che proprio qui, a mio parere, sta la grandezza di Lean, nel riempimento di quello che non è storia…), di film fuori tempo massimo.

Ma anche Tullio Kezich, ad esempio, non ha parole gentili per l’opera di Lean: “tentativo di bollire una nuova minestra con ingredienti vecchi: birra e cavalli da corsa, gabbiani e tempeste, patriottismo e bigotteria (…) Nel gonfiore delle sue assurde dimensioni, La figlia di Ryan si può considerare una specie di Breve incontro trattato con gli estrogeni” (da Il Millefilm). Quest’ultima frase è molto bella ma seppellisce implacabilmente sequenze bellissime come fosse inutile paccottiglia per aumentare il volume del film. (voto 7)

Una pubblicità del Dunville whiskey si vede spesso nel film (ma poi si beve soprattutto Jameson e Guinness) e una delle sigarette Woodbine nello scarno product placement di un film dopotutto in costume.

Stefano Barbacini

Ryan s Daughter

Regia: David Lean
Produzione: MGM
Distribuzione: MGM
Data di uscita: 10/12/1970

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