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CINEMA
25 Giugno 2024 - 23:45

FESTIVAL DEL CINEMA RITROVATO DI BOLOGNA 2024

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Giorno 3
FESTIVAL DEL CINEMA RITROVATO DI BOLOGNA 2024

“In oltre mezzo secolo di carriera (1917-1968) Gustaf Molander realizzò quasi settanta film, e la sua parabola di regista è parallela a quella dell’industria cinematografica svedese. Segnò l’inizio dell’Età dell’oro del muto svedese (…) e fu tra i pochissimi registi del suo paese a gestire con successo la transizione al sonoro (…) Una carriera così lunga ebbe ovviamente i suoi alti e bassi, ma Molander seppe creare grandi opere in ciascun decennio del suo mezzo secolo di attività.” (Jon Wegstrom dal catalogo del Festival del Cinema Ritrovato 2024). Il Festival dedica a Molander una rassegna che abbraccia un’ampia varietà di generi e periodi. Il primo film che abbiamo visto è stato Trots (1952), un calderone di argomenti scottanti (rapporto padri e figli, rapporti uomini-donne, rapporti di classe, sesso occasionale, aborto) vengono mischiati (non brillantemente bisogna dire) nella storia di Rolf, studente insofferente del suo rapporto con il padre severo e “giudicante” e senza una figura di madre di riferimento. Quando il ragazzo viene lasciato dalla sua fidanzata perché giudicato da lei di comportamento troppo rigido, in una notte di solitudine incontra un’operaia, anch’essa in crisi sentimentale, e vi fa sesso mettendola incinta. La vicenda scoperchierà il calderone di cui sopra svelando segreti del rapporto tra il padre e la madre di Rolf al momento della sua nascita, che rispecchia in qualche modo quello di Rolf e l’operaia, con il padre che cerca di non far commettere gli stessi errori al figlio. Finirà con i rapporti di classe “ristabiliti” con il ritorno di Rolf alla famiglia e alla ragazza borghese e la povera operaia nelle mani di un pessimo elemento maschile. Il film visivamente affascinante con i suoi bianchi e neri contrastati, manca purtroppo di fluidità ed avanza per scene madri, cambiamenti repentini di comportamenti e sermoni che ne rallentano il ritmo. Harriet Andersson, splendida operaia ingenua e disinibita, verrà scelta e lanciata da Bergman l’anno successivo in Monica e il desiderio (voto 5/6) National e Pilsner product placement nel film.

Molto meglio la versione di Molander di Ordet da Kaj Munk. dodici anni prima di quella di Dreyer (uno dei capolavori assoluti della cinematografia mondiale), ovvero nel 1943, sotto l’egida del nume tutelare del cinema svedese Victor Sjostrom che ne è anche protagonista come attore. Molander firma questa pellicola in cui morte e resurrezione si susseguono nella famiglia protestante del padre-padrone proprietario di una grande fattoria che conduce assieme a tre figli, una nuora, due nipotine e una fidanzata. Ribellione al patriarcato, crisi di fede, fanatismo religioso, binomio scienza-religione e drammi famigliari in questo intenso film che non ha certamente la rigorosità artistica e unica del grandissimo Dreyer, ma mette fisicità, crisi di coscienza, follia e umanità in una pellicola comunque memorabile. “Ordet ha finito per essere ingiustamente trascurato, soprattutto a causa della versione filmata da Carl Th. Dreyer docici anni dopo. Il film di Molander è forse privo dell’austerità della versione di Dreyer, ma questo dramma sulla natura del miracolo, sulla fede e sulla sua assenza, possiede un’atmosfera tesa e drammatica e il suo immaginario visivo ricorda a tratti quello del cinema muto” (dal catalogo del festival). (Voto 7,5)

Inizia con uno strepitoso piano sequenza con la camera che segue una strada brumosa notturna e finisce nel Café Fontaine (dove il protagonista Henri si interroga sul suo prossimo matrimonio voluto dal padre per convenienza) l’altrettanto strepitoso film Enigma (Die Frau, nach der man sich sehnt, 1929) di Kurt Berhardt al suo ultimo film muto. Al primo piano sequenza ne seguiranno altri e il regista non si limita a questo vezzo stilistico, ma riprende la fonderia di proprietà del padre di Henri con la stessa abilità di un Abel Gance, di un Fritz Lang e di un Vertov (le idee girano), e poi infarcisce il film di immagini glamour utilizzando giochi di specchi alla L’Herbier, primi piani vaporosi e sovraesposizioni alla Epstein e una magnifica Marlene Dietrich inquadrata come solo Von Sternberg riuscirà nel futuro. Sì perché il film fa parte della rassegna dedicata alla divina Marlene; Henri parte in viaggio di nozze con la bella e ricca moglie anche se non ha ancora capito se la ama o no, prima di salire sul treno resta affascinato dal volto radioso che appare dietro un vetro sporco e umido e, in una lunga sequenza girata nel corridoio del treno stesso, si invaghisce irreversibilmente di Stascha, l’enigmatico ed erotico personaggio interpretato dalla Dietrich, ne prenderà le difese dall’accompagnatore che vorrebbe averla per sé e getterà nella disperazione la povera moglie che capisce tutto. La sequenza è diretta da Bernhardt (regista che poi approderà ad Hollywood dopo essere emigrato dalla Germania, era stato arrestato dalla Gestapo e non buttava bene la situazione, diventando un regista prolifico con alcune buone pellicole girate ed altre più da mestierante) in modo magistrale utilizzando al meglio le possibilità che gli dà uno spazio così ristretto in modo che, come scrive Peter Manz sul catalogo del Festival del Cinema Ritrovato 2024, “la scena dell’incontro in treno tra Stascha e Henri è leggedaria”. Grande abilità registica (la seconda metà degli anni venti rappresentano cinematograficamente una miniera di gioielli di visionarietà mai più così “piena”), ma anche grande presenza di Marlene che non sbaglia un colpo; con uno sguardo e una sigaretta scioglie le già poche riserve di Henri, con uno strabuzzamento d’occhi inganna il compagno fingendosi svenuta, con un battito di ciglia si fa credere innocente (cosa che non è), con le sue gambe avvolte negli autoreggenti sprigiona erotismo da turbare un seminarista, con uno sguardo glamour e un cenno della testa acconsente ad essere uccisa e a pagare le sue colpe. Un mito vero. (voto 7/8). C’è spazio anche per un product placement all’interno del Café Fontaine dove appare una pubblicità dello champagne Perrier-Jouet.

Recuperata da un restauro dalla Cineteca di Milano, al Festival del Cinema Ritrovato 2024 è stata presentata l’unica copia imbibita oggi esistente del film Scuola d’eroi (1914) di Enrico Guazzoni, regista specializzato in Kolossal degli anni ’10 e in ricostruzioni storiche. In questo film si cimenta con il periodo napoleonico; due bambini si perdono in un bosco dopo un agguato in cui ha perso la vita la madre, mentre il padre è in guerra e vengono adottati da una famiglia della campagna italiana. Gli anni passano e da grandi diventeranno un soldato napoleonico lui e un’attendente di campo lei. Li seguiamo durante le campagne napoleoniche fino a che il film vira decisamente verso il romanzo d’appendice con l’arrivo di una dama della nobiltà che si invaghisce del soldato cacciando per lui l’amante vendicativo. La sorella lo mette in guardia e gli ricorda che la vita di un soldato è solo per Napoleone e per la Francia! Allora la dama, allontanata dall’oggetto dei suoi desideri, si allea con l’ex amante per tendere un tranello al soldato imprigionandolo proprio mentre era in procinto di iniziare una missione pericolosissima e fondamentale su incarico di Napoleone. Sarà l’eroica sorella a completare la missione ma il fratello verrà comunque accusato di alto tradimento e condannato a morte proprio… dal padre perduto anni prima e appena ritrovato… I due fratelli sono interpretati da Amleto Novelli (nei titoli appare come Anthony Novelli però) e da Pina Menichelli che in seguito diventerà una delle maggiori dive del periodo. Lo stile di Guazzoni è al solito illustrativo e poco innovativo, seppur interessante come utilizza masse di comparse con divise storiche. (voto 6-)

Ritroviamo Willi Forst a capo della sua Willi Forst-Film come produttore nel 1948 del film (presentato nella sezione Black Heimat) Die frau am weg ambientato tra le montagne sul confine svizzero-austriaco nel 1938 al tempo dell’ Anschluss ovvero l’annessione voluta da Hitler (passando per un referendum non molto democratico con l’esercito tedesco che minacciava l’invasione) dell’Austria alla Germania per la creazione di una Grande Germania. Il film inizia mostrandoci la quotidianità di una guardia di confine e della bella moglie, lui lavora di notte controllando il confine, lei tra capre, coniglie e lavoro contadino. Si capisce subito che lei, Christine, non è molto soddisfatta della sua vita e in un paio di scene con accenni erotici (lei che si spoglia in silhouette, lei che si lava facendo vedere le belle gambe nude) capiamo che anche la vita sessuale tra i due non è attivissima. Il loro tran tran viene sconvolto dall’arrivo di un fuggitivo da un treno di prigionieri destinato ai campi di concentramento. Il prigioniero si rifugia nella casa della coppia dove c’è solo Christine che lo aiuta a non farlo trovare dalle SS. Quando il marito scoprirà quello che ha fatto la moglie e che questa sarebbe disposta ad andarsene con il nuovo arrivato, probabilmente presa da lui, cercherà di uccidere l’uomo perdendo la moglie e poi lo denuncerà ai nazisti che, nella loro cieca ossessione, uccideranno la guardia per sbaglio. Il discorso da personale (gelosia, paura di perdere la moglie) si fa politico quando Christine dice al marito che non possono denunciare il fuggitivo e il marito risponde che lui deve rispettare la legge e non può mettere in pericolo il suo lavoro, la sua casa e sua moglie. In pratica facendo individuale il pensiero di gran parte della popolazione austriaca durante la pagina nera delle deportazioni e dei crimini nazisti. Scrive Olaf Moller nel catalogo del Festival del Cinema Libero 2024: “La storia di Christine (…) comprende un dettaglio che ancora oggi appare sconcertante nella sua franchezza politica: quando la donna capisce che il prigioniero è destinato a un campo di concentramento e sembra esserci già stato, gli chiede se fosse così orribile come si diceva nel suo paesino di montagna. Eccola, la cruda verità negata troppo a lungo e ora rivelata in un melodramma Heimat dalle sfumature noir: tutti sapevano.”(voto 7)

 

STEFANO BARBACINI

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