Da poco vi ho parlato del capolavoro Suspence di Jack Clayton, il film tratto da Giro di vite di Henry James; nel 1971 il ben meno raffinato Michael Winner, regista grossolano, verace, virulento e materico, dà la luce all’opera Improvvisamente, un uomo nella notte (The nightcomers, 1971) in cui, prendendo spunto da ciò che è solo sottinteso da James e Clayton, è interessato ad approfondire il rapporto sadomaso tra il giardiniere Peter Quint e la governante Miss Jessel, i due fantasmi del film di Clayton. In pratica Improvvisamente… è il prequel delle vicende del film di dieci anni prima. Non avrei avuto dubbi che a Winner interessasse mettere la carne, la perversione, gli impulsi di morte in primo piano. E a dar vita ai due personaggi chiama nientemeno che Marlon Brando nei panni del violento e perverso Peter, e Stephanie Beacham perfetta nel ruolo di morigerata governante che non riesce a non farsi sottomettere alle voglie sessuali del macho Brando. Ma ancor più in parte i due giovani attori che interpretano gli inquietanti e corrotti bambini Miles e Flora. Peccato che la fotografia piatta e “televisiva” non renda giustizia alle voglie “exploitation” di Winner, un regista che va preso così, con i suoi eccessi e i suoi sbandamenti. Certo è che la perfetta atmosfera e le raffinatezze registiche di Clayton, seppur non esplicitavano gli atti, rendevano meglio l’aria malsana della casa. “Winner riesce a pervadere il film di una scomposta laidezza, definisce i personaggi con malsana precisione, scade consapevolmente nel b-movie nonostante la confezione d’epoca, concedendosi qualche scena di bondage di studiata sgradevolezza. L’esperimento (anche grazie alla tangibile lascivia della recitazione biascicata e dionisiaca di Brando, che l’anno dopo si getterà in diverse avventure erotiche nel Tango di Bertolucci) è a suo modo riuscito: la stilizzazione estrema di Clayton e il suo nascondere alla vista l’invisibile si è trasformato con Winner in una sorta di exploitation trucida, con tutto ben mostrato e in bella vista. Un’operazione non priva di rozzezza ma brutalmente fascinosa e narrativamente libera.” (Federico Pedroni, I bambini ci guardano, Cineforum Nuova Serie N.0, dic 2020). Il Morandini e Mereghetti sono concordi nel massacrare il film (un asterisco e mezzo per entrambi). (voto 6,5)
Arrivo a questo film leggendo un articolo su Jacques Audiberti, poeta, romanziere, drammaturgo e anche critico cinematografico; in Italia semisconosciuto ma non in Francia. Audiberti ha avuto a che fare poco con il mondo del cinema in maniera attiva, ma nel 1962 l’amico Jacques Baratier, cineasta a parte con una carriera registica incostante e inconsueta, decide di trarre un film da un suo testo, La poupée. Il film è una bizzarria musical-teatrale con strizzata d’occhio cinefila avanguardistica. Un film non certamente riuscitissimo ma una curiosità da vedere. La storia sfilacciata è continuamente destabilizzata da montaggio, sovraimpressioni, duplicazioni e giochi sul tempo e lo spazio cinematografico. Fondamentalmente in uno dei tanti paesi governati da una dittatura militare, uno scienziato crea un doppio dell’amante del Colonnello al potere mentre la resistenza si organizza per uccidere il dittatore. Finirà che un altro doppio, un rivoluzionario sosia del Colonnello, prenderà il posto del despota in tutti i sensi, diventando a sua volta un dittatore, nonostante il clone creato dallo scienziato si metta, lei, a sobillare la popolazione per chiedere la libertà. Grottesco affresco politico che chiaramente prende spunto dalla realtà, si pone tra Viva Villa!, Metropolis, L’isola che scotta di Bunuel e Il dittatore dello stato di Bananas di Allen con lampi felliniani, anche se alla lunga il grottesco diventa buffoneria. La dichiarazione d’intenti di Baratier è nell’incipit del film: questo film non tratta di una nazione o di un regime in particolare. Come il cabaret, gioca su aspetti contraddittori e spesso inconciliabili che prevalgono sulle anime umane e sulle situazioni storiche, sempre e ovunque. Fanno parte del progetto, in ruoli insoliti, il nostro Claudio Gora capitalista senza scrupoli, Sacha Pitoeff canterino e Jacques Dufilho in versione… femminile. (voto 6)
It’s camp! E contiene il nuovo successo del Nancy Sinatra beat! Questi slogan contenuti nel trailer del film danno un’idea di quello che potete vedere se vi procurate Il castello delle donne maledette (1966), titolo fuorviante (tra l’altro a rischio di essere confuso con il successivo Terror! Il castello delle donne maledette del 1974 come ho fatto io…) dell’originale The Ghost in the Invisible Bikini che rende meglio l’idea, dato che non di un horror stiamo parlando ma della parodia di un horror. E’ un tipico film AIP prodotto con pochi soldi e con voglia di divertimento, appunto, camp. La prima parte è in sostanza un beach movie “praticamente Beach party trasportato nella casa degli orrori (…) in colonna musicale, il suo corrispettivo è PET SOUNDS dei Beach Boys che incontra Psycho di Hitchcock…” scrive Giandomenico Curi sul suo dizionario ragionato I Frenetici (Arcana Pop). L’esile trama parte con Boris Karloff che interpreta un ricco defunto che incontra l’altrettanto dipartita Susan Hart. Per poter andare in paradiso il personaggio di Karloff deve fare una buona azione e lui decide di difendere i propri parenti dal crudele notaio interpretato da Basil Rathbone che li vuole uccidere per incassare l’eredità. Utilizzando il fantasma di Susan Hart (un effetto in sovraimpressione piuttosto bruttino, figura in negativo che rende il bikini indossato dall’attrice “invisibile”, da qui il titolo…) riuscirà a difenderli. Tra l’altro dall’introduzione che ne fa Luigi Cozzi nell’extra del DVD edito dalla Sinisterfilm, scopriamo che le scene del fantasma che entra nella vicenda non erano previste e sono state girate a coda del film dato che i due produttori, i mitici Nicholson e Arkoff, lo trovavano orrendo. Cercarono così di migliorarlo inserendo Susan Hart, facendo anche un piacere personale all’amante e poi moglie di Nicholson, appunto la Hart. Per quanto riguarda i numeri musicali tutti presenti nella prima parte lascio ancora la parola a Curi: “Dal punto di vista musicale, forse il numero migliore è quello di Nancy Sinatra che canta Geronimo in una scena dalle parti della piscina, e, non contenta, tenta anche di recitare. Una menzione a parte merita invece Piccola Pupa, d’importazione italiana, naturalmente, che cerca di cantare (e ballare) Stand up and fight. Ma forse ancora peggio sono i due brani dei leggendari Bobby Fuller Four, che qui appaiono assolutamente confusi e fuori posto”. Piccola Pupa è Giuliana Crimilde Coverlizza, una giovanissima italiana, ligure, che ebbe un po’ di fortuna (per un breve periodo) in America (su Youtube potete trovare l’unico LP da lei pubblicato con canzoni della tradizione italiana e qualcuna in inglese) come attrice e cantante bambina. Qui è già ragazza e dice anche alcune frasi in italiano. Non è citata invece da Curi la ex-miss Scozia Quinn O’Hara che pure canta una canzone in stile musical con voce sussurrata e accattivante tipo Marilyn Monroe ed è sicuramente la presenza femminile più notevole. La seconda parte del film è quella più parodica, piena di sketch da old dark house movie e trovatine tra il surreale e lo stupidotto tipo i film di Gianni e Pinotto contro Dracula o Frankenstein. Un film da prendere per quello che è, un divertissement giovanile figlio dei tempi. “E’ una tipica sciocchezzuola AIP (…) alcuni mostri poco convincenti, buona musica dei Bobby Fuller Four, molte ragazze, e un gorilla” (The Psychotronic Encyclopedia). (voto 5,5) Non vi è product placement esplicito ma quel giochino che i ragazzi fanno durante un numero musicale (un’asta che va tenuta tra le mani e fatta agitare continuamente in modo che un pendaglio applicato al centro continui a girare) potrebbe decisamente esserlo.