Come primo film di giornata del Festival Il Cinema Ritrovato di Bologna XXXIX edizione, ho scelto Gehenu Lamai (Girls, 1978) della regista dello Sri Lanka Sumitra Peries che fa parte della sottosezione dei Ritrovati e Restaurati chiamata Cinemalibero, ovvero film da nazioni meno frequentate con un sottotesto più politico-sociale degli altri. Apparentemente un film d’amore (ma proprio la regista ci tiene a precisare, per bocca di alcuni studenti politicizzati, che il disimpegno delle storie d’amore senza un ragionamento politico favorisce le ingiustizie del mondo capitalistico) in cui due adolescenti cresciuti insieme si innamorano col tempo. Ma il loro è un amore impossibile perché uno è il figlio dei padroni, l’altra la figlia di una serva. Quindi quello che sembra (ed è) uno struggente racconto di amore impossibile, mette il dito nella piaga della differenza di classe ma anche della condizione della donna nella società di quella nazione. Il film è naturalistico e ricorda le opere più intense di Satyajit Ray ed ha una delicatezza tutta femminile nel riportare i rapporti tra amiche, le invidie e il classismo delle compagne di scuola, il rapporto con la natura e il dolore di non poter vivere una vita felice. Un mezzo capolavoro (miglior film dell’anno al London Film Festival del 1978) che solo la tenacia della Sumitra Peries Foundation (purtroppo la regista ci ha lasciato due anni fa) con la collaborazione del laboratorio L’Immagine Ritrovata ha riportato alla luce e ha fatto riscoprire. (voto 7+) Singer e il mitico furgone Volkswagen per il product placement del film.
La mattinata prosegue con Cento anni fa: 1925 per cui oggi viene proposta una giornata avanguardistica. Il curatore Oliver Hanley ha messo assieme un breve documento sull’Esposizione delle Arti Decorative di Parigi di quell’anno (mostrando dipinti che mostrano artisti e modelle nudi intenti in atteggiamenti danzerecci e dionisiaci) e le Opus II, III & IV di Walther Ruttman seguite dalla Symphonie diagonale di Viking Eggeling, corti d’avanguardia dove forme geometriche e linee di disegno si animano sullo schermo. Questo per illustrare il clima artistico che si respirava in quel momento che sfocerà in alcune opere rimaste come pilastri del movimento come Le voyage imaginaire di René Clair, una fantasmagoria in cui alcuni impiegati di una banca, tre uomini più il direttore, più che lavorare si disputano l’amore per l’unica impiegata (Dolly Davis). Dopo alcune battaglie a colpi di carta, il protagonista Jean (Jean Borlin) si addormenta e sogna un “viaggio impossibile” in cui incontra e salva una strega che per ringraziarlo lo invita nel mondo sotterraneo delle fate. Dato che al mondo nessuno più crede nelle fate, queste sono diventate tutte delle vecchie megere che grazie ai baci del nostro ridiventeranno giovani e belle fanciulle. Nel sogno arriveranno anche i colleghi della banca e la bella Dolly e tutto diventerà un escursus nell’assurdo dove Jean verrà trasformato in cane, le maschere di cera del Museo Grevin (product placement?) si animano, un anello di una tenda diventa magico e un sosia di Charlie Chaplin sbroglierà la situazione in perfetto stile comico da Charlot. Clair è sempre stato il regista del movimento avanguardistico-surrealista più ironico e qui si scatena con la fantasia e con l’utilizzo di alcuni esperimenti tecnici (pellicola montata al contrario, animazioni, trucchi di sovraimpressione ecc.). Il tutto accompagnato dal vivo da pianista e dalla musica elettrosperimentale (perfettamente in linea con le pellicole) di Laura Naukkarinen. Sul catalogo del Festival del Cinema Ritrovato di Bologna, troviamo nella scheda di questo film uno scritto del regista Michel Gondry: “Ho la sensazione di vedere bambini che usano le cineprese dei genitori in loro assenza, e questo mi riempie di gioia. All’improvviso ci ritroviamo all’aperto, in scenari complessi con scale, architetture e luce naturale, e abbiamo compiuto un balzo di vent’anni nel linguaggio cinematografico (…) La narrazione è geometrica, ingegnosa, e lascia presagire il regista virtuoso e innovatore che René Clair sarebbe diventato.” (voto 6,5)
Da Hong Kong il film al momento più bello che abbia visto nella XXXIX edizione del festival Il Cinema Ritrovato di Bologna. Un capolavoro della regista indipendente Shu Shuen Tang, non certo una delle più note dell’isola all’estero. The Arch (1968) narra le vicende, ambientate nel XVII secolo, di una vedova che nel suo paese è un’istituzione, donna rispettata da tutti e insegnante per i bambini del villaggio. Un giorno in casa della donna, che vive con la vecchia madre, una figlia adolescente e un bracciante, arriva un ufficiale che chiede ospitalità nei locali della scuola. Nei giorni che il nostro parteciperà alla vita famigliare farà innamorare la protagonista Madame Tung (Lisa Lu di una bellezza e un’intensità rare) apparentemente ricambiata; ma di lui si innamorerà anche la figlia. Per non disonorare la ragazza allora la donna si metterà da parte e farà sposare l’ufficiale con la figlia e i due, proprio per il pericoloso rapporto tra lui e Madame, andranno ad abitare via. Morta la madre e allontanatosi anche il bracciante, Madame Tung si ritroverà sola e infelice e l’Arco che il re le ha fatto costruire all’entrata del paese in suo onore suona di beffa, celebrazione mortuaria di una donna ancora in vita (ma quale vita?). Il film gioca tutto sui sentimenti trattenuti, sul non detto e il non agito che però verrà lasciato capire da piccoli dettagli, una poesia, due mani che si incrociano, sguardi scambiati, un trucco per apparire più bella. Ma tutto questo “sottotraccia” per non andare contro le convenzioni sociali e l’altruismo autodistruttivo di una madre, porteranno alla sua infelicità di aver perso l’ultima speranza di tornare a vivere dopo la morte del marito. Lunghe sequenze composte da lenti zoomate, alcuni frame bloccati in momenti particolarmente significativi vissuti dalla donna, alcune ingegnose sovraimpressioni e un finale con un montaggio frenetico per mostrare la follia che esplode nella testa della donna, fanno di questo film un esercizio stilistico pienamente riuscito. Un’opera da riscoprire e proiettare il più possibile. (Voto 7/8)
Oggi due Naruse al prezzo di uno al cinema Jolly di Bologna, dove la rassegna dedicata dal Festival Il Cinema Ritrovato ai film del regista giapponese ha principalmente luogo. Due film di un’oretta scarsa che portano avanti brillantemente la ricerca del regista sui rapporti tra donne e sociale, matrimoni combinati e matrimoni d’amore, modernità e tradizione di questo periodo, come abbiamo già visto. Il primo dei due film è Nadare del 1937 in cui vediamo il personaggio principale come la versione più cattiva e immorale del marito di Hiroko in Nyonin Aishu visto nei giorni precedenti. Anche qui un matrimonio combinato tra un giovane della borghesia e una donna di una dolcezza e comprensione infiniti. Ma questa volta lo vediamo dalla parte del marito che in realtà ha sempre amato un’altra donna e gli è stato impedito di sposarla per le solite convenzioni sociali. La decisione che il nostro prenderà (e che ci manifesta tramite pensieri esplicitati usando un espediente insolito, in pratica lo schermo si oscura leggermente e si sente la voce del protagonista che ci dice quel che ha in mente) sarà drastica: visto che non può ribellarsi al padre fermo alle tradizioni secolari perché perderebbe i soldi di famiglia (quindi ribellione sì… ma se assistita dal capitale…) decide di inscenare un omicidio-suicidio dove la moglie (talmente buona e sottomessa al marito che accetterebbe di morire con lui) verrebbe trovata morta e lui salvo per… un pelo. Rinuncerà ai propositi davanti alla sensibilità e al pianto della moglie. “Il film si distingue per l’eleganza formale: Tetsuya Hirano elogia giustamente il dinamismo delle scene girate nei dintorni del Castello di Nagoya, le immagini della luce solare che filtra tra gli alberi e le panoramiche del protagonista che cammina sotto la pioggia” si legge dal catalogo del festival. (voto 6,5) Il secondo (anche se antecedente di due anni, del 1935) è Uwasa no musuma (La ragazza di cui si parla) che invece porta avanti il discorso del rapporto tra modernità (ancora i balli sulla musica jazz americana) e tradizione di due sorelle e del padre con due famiglie, la sua e quella parallela con una geisha (che anche qui si dimostra donna rispettabilissima e buona). “Conciso, essenziale nel ritmo, elegante e affascinante (…) liberamente ispirato a Il giardino dei ciliegi di Cechov” (dal catalogo) (voto 6/7)
Ancora finale di serata con Lewis Milestone con un film decisamente più “importante” rispetto al Red Pony della sera precedente se non altro per l’ambientazione della Parigi pre-Seconda Guerra Mondiale quando la città era piena di rifugiati di tutti i paesi e per gli interpreti tutti giusti e carismatici, questa volta. E’ stato proiettato al Festival Il Cinema Ritrovato di Bologna XXXIX, Arco di trionfo (1948), un film eterogeneo che vede protagonista Charles Boyer, rifugiato senza passaporto con decine di nomi, medico-chirurgo che si prodiga ad aiutare chi non ha la possibilità di andare in un ospedale “ufficiale”. La sua vita cambia quando sulla scena appare la spaurita e scombussolata Joan Madou che ha appena lasciato nella stanza del suo albergo il marito morto. Nonostante l’approccio iniziale cinico e distante di Boyer, questo non può non innamorarsi di una giovane e bellissima Ingrid Bergman! Amore che viene messo in difficoltà dall’espulsione di Boyer dalla Francia e Joan, non troppo portata a restare ad aspettare, si trova un ricco amante e se ne va in Costa Azzurra. Al ritorno di Boyer a Parigi i rapporti tra i due riprendono ma si fanno difficoltosi e tragici. Nella trama vi sono anche lampi delle vicende politiche del tempo come la guerra di Spagna, le torture naziste, l’invasione della Polonia e l’inizio della guerra. Una vicenda in particolare ruba la scena alla storia d’amore, ovvero l’apparizione di uno degli aguzzini nazisti che ha ucciso la compagna precedente di Boyer, interpretato dalla solita ghigna repulsiva del grande Charles Laughton. Il film è girato come un film noir (riprese notturne, hotel secondari, cabaret e locali pieni di traffici e sotterfugi, pioggia a catinelle, atmosfera di sospetto e cupezza) ma è in parte apparentabile ai melo con intrighi internazionali tipo Casablanca o Macao anche se poi si esagera con il glamour e il pietistico andando dalle parti di Matarazzo. Un film tratto da Erich Maria Remarque che probabilmente risente dei tagli voluti dalla produzione, infatti Milestone aveva girato un film di 224 minuti poi ridotto a 133. Pieno di dialoghi arguti e sarcastici, ricordiamo la battuta “un rifugiato senza passaporto non fa più parte della razza umana” che potrebbe essere scritto oggi… Il giudizio di Morandini sul film: “Un costoso, ambizioso fallimento artistico e commerciale che fece chiudere l’Enterprise Studios. Contribuirono anche i vincoli di censura che lasciarono nel vago il mestiere dell’infelice eroina. Milestone non era il regista adatto.” è probabilmente uno a cui si riferisce il curatore Ehsan Khoshbakht quando scrive sul catalogo edito dal festival: “E’ incredibile quanto il film sia cupo e opprimente. Eppure è di gran lunga superiore alla sua reputazione, e rimane importante sotto molti aspetti; è un film che possiamo ancora ammirare per le sue ambizioni”. (voto 6,5) Sigarette Oziri a punta d’oro perfette per le torture non so se esistessero veramente, quelle che esistono sono invece le preferite del personaggio di Boyer, le Chesterfield che però nessuno ha e allora vanno bene le Laurens verdi. Ambientato in Francia non poteva mancare la pubblicità di Byrrh. Vari hotel citati ma il product placement principale è quello di Fouquet’s in cui varie scene sono ambientate. Un’auto citata, è una Talbot.