Oggi ho visto i primi due film della rassegna di 9 del periodo prebellico del regista Mikio Naruse, uno dei più importanti del Giappone anche se meno conosciuto di Mizoguchi, Ozu e Kurosawa. Il primo è Nyonin aishu (trad. I dolori di una donna, 1937) che si basa su un’interpretazione magistrale di una diva del cinema muto giapponese, Takako Irie. L’attrice interpreta Hiroko, una ragazza che è innamorata (probabilmente contraccambiata) del proprio cugino, ma non è abbastanza “moderna” per sopportare lo scandalo che ne nascerebbe ed allora accetta di sposare, per accontentare la famiglia, un ricco damerino che la vede più come una moglie da mostrare e da utilizzare come serva: “siamo sposati, cosa c’entra l’amore!” le dirà dopo esser tornato da una delle sue serate alcoliche e contornato da donnine. Anche i suoi famigliari trattano la “dimessa e brava” Hiroko come fosse una governante più che un componente della famiglia. Le sue vicende si intrecciano con quelle, pure infelici, della cognata che della modernità ha preso lati positivi e negativi. Scoprendo che val la pena lottare per l’amore, Hiroko avrà il coraggio di ribellarsi andandosene dalla casa e alle minacce di disonore per aver rotto le tradizioni risponderà: “Ci sono cose più importanti del nome e della reputazione”. Un film femminista che ci mostra un Naruse aperto al mondo nuovo, quello occidentale e americano in particolare (simbolo di emancipazione è essere capaci di ballare ritmi americani…) e di voler puntare il dito sulla situazione chiusa delle donne giapponesi ovvero: “una delle critiche più implacabili del cinema giapponese prebellico ai ruoli sociali imposti alle donne” (Catherine Russell, riportata sul catalogo del Festival del Cinema Ritrovato di Bologna XXXIX edizione). (voto 7) Alcune riviste giapponesi esposte in un negozio potrebbero essere product placement.
Il secondo è Tsuma yo bara no youni (trad. Moglie sii come una rosa, 1935), che leggo dal catalogo: “è il più famoso film di Naruse degli anni Trenta e una delle pochissime pellicole giapponesi d’anteguerra distribuite all’estero.” Qui la curiosità di Mikio Naruse per la commedia americana è ancora più accentuata, soprattutto con i giochi di montaggio e musica di inizio film. Qui si tratta di una famiglia abbandonata dal padre che è fuggito con una geisha e da anni non si fa più vedere. La moglie (una sognatrice che si crede poetessa ed ha atteggiamenti snobistici) vive in un mondo tutto suo e i conti vengono pagati dal lavoro della figlia Kimiko, ben più dinamica, moderna e concreta (interpretata dalla moglie di Naruse, Sachiko Chiba) che, anche grazie ad alcuni soldi che arrivano probabilmente dal padre, riesce così a mantenere la madre e il fratello più giovane. Quando il padre torna momentaneamente in città e non si fa vedere in famiglia, Kimiko raggiunge il paese di montagna dove il genitore si è ritirato decisa a riportarlo a casa e metterlo davanti ai suoi doveri di marito e padre. Giunta sul posto però scoprirà che lì l’uomo ha una seconda famiglia con due figli adolescenti e che la moglie, seppur sia stata una geisha in passato, è una persona adorabile che ama l’uomo. Cosa fare? Portare via il padre ad una famiglia felice o lasciare che continui a vivere lì? Se il precedente film metteva in contrapposizione modernità e tradizione, qui vi è la contrapposizione vita in città e vita in provincia. “Il film è di una bellezza formale raggiunta attraverso l’armoniosa sintesi di suono e immagine (…) e apporta un tocco di freschezza alle convenzioni dello shinpa (il melodramma teatrale tradizionale giapponese ndr) toccando la vera natura del cuore umano. Un trionfo per Mikio Naruse e un trionfo per il cinema sonoro (Kyoichi Otsuka, citazione riportata sul catalogo del Festival del Cinema Ritrovato di Bologna). (voto 7)
Restiamo in Giappone perché tra i film “Ritrovati e Restaurati” il Festival del Cinema Ritrovato di Bologna ha recuperato Nippon senbotsu gakusei no shuki: kike wadatsumi no koe (titolo internazionale Listen to the voices of the sea, 1950), film postbellico del regista di sinistra (e perseguitato per questo) Hideo Sekigawa che, partendo dalle lettere toccanti di alcuni soldati impiegati nella seconda guerra mondiale alle famiglie, racconta le esperienze atroci di alcuni soldati che, a guerra praticamente persa, sono costretti alla fame e al pericolo di morte da ufficiali ottusi, sadici e fedeli alla Patria in modo ciecamente fanatico. Un film potentemente antimilitarista (e più che mai attuale perché questi soldati da sacrificare potrebbero essere i russi e gli ucraini odierni) che rinnova quello sulla prima guerra mondiale, Niente di nuovo sul fronte Occidentale e anticipa Orizzonti di gloria e L’arpa birmana. Fango, morte, malattia, mutilazioni. Fame ed esecuzioni sommarie. Gli uomini che si abbassano alla bestialità più triviale e in contrasto ricordano le giornate passate all’Università a parlare di Montaigne, di filosofia e di letteratura. Terribilmente efficace il parallelo tra civiltà e cultura, guerra e sopraffazione. Unico appunto sul film è il trascinamento finale verso una retorica che un po’ vanifica la materica sofferenza della prima parte. (voto 6/7)
Si è visto anche il primo film della rassegna sul Norden noir con la proiezione al Festival del Cinema Ritrovato di Bologna del danese Murder Melody (1944) che tratta degli omicidi in serie di alcune donne, tutte di nome Sonja, perpetrati da una misteriosa assassina canterina (quando uccide canta una melodia accattivante). Protagonista del film diventa la cantante di cabaret Odette Margot (Gull-Maj Norin) che ha un passato misterioso in cui si chiamava proprio Sonja e si esibisce in un nightclub proprio con la canzone cantata dall’assassina e quindi diventa la prima sospettata. Film che rispetta tutti i canoni del noir classico: immagini e locali notturni, nebbia, pioggia, omicidi misteriosi, ombre angoscianti, atmosfere cupe, un poliziotto sarcastico con battute chandleriane (“perché gli omicidi avvengono sempre all’ora di pranzo? Proprio oggi che mia moglie ha fatto il merluzzo”) e un inquietante personaggio mezzo mago e mezzo ipnotizzatore che ha il volto ambiguo e che mette a disagio di Angelo Bruun. Vi è anche una non più giovane truccatrice di teatro chiaramente lesbica. Uno dei pochi noir diretti da una donna, Bodil Ipsen, è film gradevole per come gioca, per ossimoro, sulla sgradevolezza con un finale un po’ semplicistico. (voto 6,5) All’interno di una latteria spiccano scatole tutte KB, probabile product placement.
Interessante recupero (con un restauro bellissimo) di un film poco visto, il francese Les mauvais coups (I cattivi colpi, 1961), esordio alla regia di Francois Leterrier (in seguito mai più a questi livelli). Dominato dalla presenza di Simone Signoret (nella presentazione al film in sala Sophie Seydoux precisa che la Signoret non interpreta un personaggio, interpreta se stessa) narra di una coppia in cui lui, Milan, pilota di auto da corsa si è ritirato in campagna con la moglie che da dieci anni lo segue, Roberte, donna autodistruttiva, alcolizzata, giocatrice accanita e che vive male l’inevitabile invecchiamento. I due hanno superato i limiti per cui la convivenza affettiva diventa rapporto psicologicamente sadomasochista. Quando al paese arriva una nuova maestra con la bellezza giovanile di Alexandra Stewart, il gioco diventa rovente e pericoloso. Il film si mantiene sempre in bilico su una corda tesissima, grigio e invernale come lo è l’ambientazione. Le passioni, gli odi, gli amori e le gelosie covano come braci sotto il fuoco spento del rapporto tra i due. L’impertinenza del cinema francese incontra la decadente drammaturgia esplosiva di Tennessee Williams. (voto 7) Notevole la presenza del product placement dalla costante presenza delle Gitanes fumate da Roberte, alla Ferrari guidata da Milan, il Ricard bevuto da entrambi vi sono anche appraizioni di Total, rivista Time, una bici Hygina, una scatola di Persil, citazioni dei grandi magazzini Prisunic, e della Jaguar.
Il festival del Cinema Ritrovato di Bologna in questa sua XXXIX edizione prevede anche la presenza di una rassegna dedicata a Lewis Milestone. In fine serata di questo secondo giorno ho visto Minuzzolo (The red pony, 1949) presentato sul catalogo del festival da Ehsan Khoshbakht come “gioiello in Technicolor tratto dal romanzo breve di John Steinbeck” e considerato “la sua ultima opera davvero grande e pienamente convincente”, personalmente l’ho trovato un film minore nonostante la presenza di Myrna Loy (madre vittoriana e demiurgica) e di Robert Mitchum (a mio parere sprecato nel ruolo di “spalla”). Una famiglia che vive in una “casa nella prateria” è formata da Alice Tiflin (la Loy), Fred Tiflin (Shepperd Strudwick che non riesce a dare spessore al suo personaggio di frustrato capofamiglia), dal padre di Alice, un vecchio nostalgico e prolisso narratore di aneddoti del passato, dal figlio minorenne e dal bracciante Billy (Mitchum). I temi sono quelli dei rapporti tra padre e figlio (il padre si sente delegittimato dall’ammirazione del figlio per Billy), dell’insoddisfazione dello spostamento in zona rurale da parte sempre di Fred che rimpiange la vita di città, dell’algida e, apparentemente in controllo, Alice che sente il pericolo del disfacimento della famiglia, del vecchio nonno che non si rassegna al tramonto della vita. Tutto però si stempera attorno alle vicende di un pony che viene regalato al figlioletto che si ammala e muore. Agli occhi del bambino cade l’ammirazione per Billy che non è riuscito a salvarlo e per il padre che nel frattempo è tornato in città. Piuttosto insipido, con una bella scena di lotta del bambino con un rapace, una bella fotografia agevolata dallo splendore del Technicolor e la professionale interpretazione della Loy. “Racconto per ragazzi e per anime semplici, scritto con gentilezza da John Steinbeck con musiche di Aaron Copland” (Morandini). (Voto 5/6)