Primo film del Festival di Bologna, Il Cinema Ritrovato XXXIX edizione, in un’affollatissima sala; è dedicato al personaggio principale di questo festival, quella Katharine Hepburn che appare anche sulla copertina del catalogo e come manifesto di questa edizione in una foto assieme a Cary Grant. Film del 1933, diretto da una delle poche donne registe del periodo, l’ambiziosa, autoritaria, energica e lesbica dichiarata Dorothy Arzner, che non poteva che volere per protagonista per il suo La falena d’argento (Christopher Strong) una donna femminista, indipendente e che, pur mantenendo il suo fascino femminile, era anche un “maschiaccio” dal fisico atletico e longilineo. La Lady Cynthia Darrington protagonista del film ne è lo specchio, aviatrice totalmente indifferente al sesso “per mancanza di tempo”, resta coinvolta in una storia sentimentale con un padre di famiglia (Colin Clive) noto per la sua fedeltà alla moglie. I due si ritrovano assieme proprio perché scelti in un gioco di società, durante un party della “upperclass”, per la loro diversità dalla mollezza, dagli intrighi e tradimenti sessuali e dai vizi dei loro amici e conoscenti. Il film che inizia come commedia, finirà in melò “aereo”… La Azner e la sua sceneggiatrice costruiscono questo personaggio aitante, determinato, pronto a sfidare la morte per infrangere i limiti; insomma una donna diversa dalle dame di società del tempo. La sua indipendenza però vacilla quando si innamora e i propositi di film “femminista” si infrangono sulla decisione della donna prima di smettere di volare per accontentare il compagno (che continua però a vivere con la moglie e sta con Cynthia in segreto), poi a rinunciare alla vita sua e del feto che porta in grembo per non rovinare l’amato. La Azner gira con la spudoratezza dei film pre-code, attenta ai dialoghi e al fascino dei protagonisti, e ci concede anche una sequenza che sembra rubata a Von Sternberg: mentre i due amanti parlano tra di loro noi vediamo solo la mano della Hepburn davanti ad un lume che muove sensualmente le lunghe dita. Bellissima. Non è piaciuto un gran ché al Morandini: “Un dramma goffo che solo qua e là riesce a essere interessante”. Evidentemente il fascino e l’erotismo della Hepburn vestita da falena non lo ha particolarmente colpito… (voto 6,5) Spicca, tra vari giornali che riportano notizie dell’aviatrice del momento, il Daily Express.
Tra i film felicemente “riesumati” dal festival nella sezione Ritrovati e Restaurati, abbiamo recuperato un film turco del 1934, Aysel, batakli damin kizi di Muhsin Ertugrul, “il primo regista dell’era della Repubblica” leggiamo dalla presentazione sul bellissimo e imponente catalogo del festival. Il film è tratto da un romanzo della scrittrice premio nobel Selma Lagerlof (la stessa dai cui romanzi hanno tratto film-capolavoro Sjostrom e Stiller nel periodo del muto). Aysel, la protagonista interpretata “dalla leggendaria Cahide Sonku (prima regista donna del paese”, è una povera contadina che si ritrova ragazza madre messa incinta da un “padrone” che poi la abbandona al suo destino, che è quello del disonore e dell’emarginazione. Verrà presa sotto protezione dalla madre del protagonista maschile, Ali, che pur essendo promesso sposo ad una ricca possidente che è stata educata in città, a Istanbul, Gulsum (“Feriha Tevfik prima Miss Turchia”), si innamora della ragazza. Cacciata via di casa da Gulsum che non le perdona lo scandalo che la circonda, alla fine grazie alla sua onestà e bontà d’animo conquisterà la solidarietà della rivale e l’amore di Ali, nel frattempo accusato di aver ucciso il padre del bambino di Aysel. Interessante come il regista “dipinge” il mondo contadino di un piccolo paese di provincia riprendendone i luoghi, il lavoro e anche la tipica “cattiveria” provinciale, e il contrasto tra città e mondo rurale, ma, nonostante parta da uno scritto di una premio Nobel e che la sceneggiatura sia stata scritta dal poeta Nazim Hikmet, il film resta un tantino troppo naif. (voto 6-) Una marca di un liquore turco potrebbe essere messo ai fini del product placement.
Nella sezione “Cento anni fa: 1925” del festival del Cinema Ritrovato di Bologna, anno che ha visto l’esordio alla regia di Josef Von Sternberg, Alfred Hitchcock e Jean Renoir, sabato 21 è stato proiettato il film di quest’ultimo, Renoir, La fille de l’eau (La ragazza dell’acqua). E’ un film che comincia come genere “vita e amori sulla chiatta lungo il fiume”, frequentato da vari registi importanti francesi e poi diventa una specie di piccola Odissea, alla Huckleberry Finn, della protagonista, Gudule (Catherine Hessling moglie di Jean Renoir per cui l’anno dopo interpreterà in modo struggente Nanà, uno dei grandi capolavori del regista) vessata da uno zio crudele, lascivo e ricattatore che le si ripresenta quando sembra che abbia trovato un po’ di pace. Sul catalogo del festival è riportato un passo dall’autobiografia di Jean Renoir che esprime bene il suo interesse per il cinema, per la parte visiva più che per quella narrativa. “La fille de l’eau era una storia priva di rilevanza letteraria (…) La trama era un elemento secondario, un semplice pretesto per inquadrature dal valore puramente visivo. Sfidavamo il punto di vista degli intellettuali che danno priorità alla tematica e considerano il contenuto più importante del contenitore”. E’ evidente che il film è stato girato per i primi piani, per l’ambientazione, per le reazioni dei personaggi a riempire lo schermo, ma, soprattutto, per la sequenza del sogno di una Gudule ai limiti della pazzia, sequenza in linea con l’avanguardia cinematografica e il surrealismo del periodo in cui “mi sono veramente dato alla pazza gioia: scene a ritroso, personaggi che appaiono all’improvviso, Catherine in sella a un cavallo che galoppa tra le nuvole e soprattutto la caduta di Catherine dal cielo, particolarmente riuscita” (Jean Renoir, Ma vie, mes films, Flammarion, Parigi 1974). (voto 6 +). Un buffo personaggio possiede una rumorosa e scalcagnata auto e la didascalia dice: “un’auto che farà invidia al Signor Citroen”, omaggio o product placement? Più certo quello del posizionamento di un cartello pubblicitario di Porto Club.
Tra i Ritrovati e Restaurati arriva una chicca assoluta, il ritrovamento di un film di Vera Vergani, protagonista del teatro di inizio secolo Novecento che a cavallo dei primi due decenni del secolo XX interpretò anche 12 opere cinematografiche, tutte date per perdute. Il ritrovamento di La paura d’amare (1920) di Roberto Roberti (che ricordo era il padre di Sergio Leone) è quindi un unicum clamoroso. Diviso in sette rulli (di cui il quarto è tuttora disperso) ha un inizio molto standard, un dramma cinematografico scritto da Dario Niccodemi (notissimo autore teatrale del tempo), che vede un nobile spiantato e cacciatore di dote cercare di intortare Anna, la ricca protagonista (la Vergani), che per lui non degna di nota il follemente innamorato Matteo Renzi (proprio così!!) interpretato da un malinconico Gustavo Serena. Scoperto il piano dell’uomo Anna lo caccia ma fa lo stesso con Matteo, perché ha deciso che la vera libertà per una donna è restare sole. In questa prima parte di notevole vi è solo l’interpretazione di classe della Vergani che impone la sua nobile figura. Ma è negli ultimi due rulli che Roberti si scatena con immagini plastiche di primi piani raggruppati, immagini allo specchio, rimandi alla pittura romantica utilizzando al meglio scogliere e mare, fino ad un finale bellissimo in cui esplode la follia di Renzi che vede in ogni donna la sua amata. Peccato per l’epilogo che riporta tutto, in modo piuttosto ridicolo, all’ovvio (forse sarebbe stato meglio se non fosse stato ritrovato questo pezzo di pellicola invece del quarto rullo…) (Voto 6+)
Finale di serata per rivedere in copia restaurata e completa il film maledetto e di culto Performance (in italiano Sadismo, 1970) dei due registi britannici visionari e coraggiosi Nicolas Roeg (anche notevole direttore della fotografia) e lo sfortunato Donald Cammell. Il film che nasce come opera di controcultura sulle orme di Easy rider & Co. ma con le influenze del free cinema inglese, diventa un’opera “ufo”, una specie di noir intrecciato con la psichedelia e con il rock. James Fox è Chas, un sicario di una banda di gangster, sessualmente sadomasochista, violento e irrispettoso del suo capo. Quando la fa fuori dal vaso andando ad uccidere chi non doveva, è costretto a scappare dalla sua stessa banda e si ritrova nella casa di un pittore e cantante rock (Mick Jagger) che vive un’esistenza bohemienne e di promiscuità sessuale con due donne bisessuali e molto libere e molto nude (Anita Pallenberg e Michele Breton). Droghe, sesso e rock’n’roll spingeranno il nostro ad un sconvolgimento personale, mentale e fisico… Il film è un delirio di scene montate in frame brevissimi, convulso e narrativamente continuamente spezzettato. Visivamente folle con viraggi, vernici che imbrattano tutto, scene oniriche, spezzoni di irrealtà. La colonna sonora a cui hanno messo mano Ry Cooder e Randy Newman è eccezionale e trova il clou nella performance di Mick Jagger con la canzone da lui scritta, suonata e cantata. Il film è stato poco capito dalla critica e poco visto dal pubblico al momento dell’uscita (ritardata per due anni perché la produzione non sapeva cosa farsene), ma poi è diventato un film stracult. “Inquietante parabola sul potere, la persuasione e la performance spinta ai limiti della follia sullo sfondo della cultura trasgressiva degli anni ’60 dove sopravvivono le componenti di una sottocultura precedente, calata in un’atmosfera psichedelica, ricca di caleidoscopiche invenzioni audiovisive.” (Morandini). (voto 7). Abbondante il product placement che, oltre le Roll’s Royce, le Rover, le citazioni per le Ferrari, le riviste Times, Playboy e Life in casa del protagonista, vede sigarette Lark, orologio Goblin, Haig whisky, Kleenex, Hotel Hilton, Polaroid (e citazione Leica), Coca Cola.