Facebook Twitter Canale Youtube RSS
CINEMA
20 Settembre 2025 - 23:44

DIARIO VISIVO (Pittaluga e Cines)

 Print Mail
Cinque dei primi film sonori della storica casa di produzione
DIARIO VISIVO (Pittaluga e Cines)

Gennaro Righelli è un regista che andrebbe meglio analizzato. La storia del cinema non lo ha considerato altro che un onesto artigiano di film popolari. Non che non sia vero, tra l’altro lavorò nel periodo della crisi, degli anni Venti del Novecento, del cinema italiano e per riuscire a realizzare film emigrò in Germania. Pittaluga fu l’unico produttore, grazie principalmente ai film di Maciste, a resistere e nel 1926 acquisì la Cines. Come Pittaluga-Cines, attrezzandosi prima di altri alla produzione di film sonori, fu il primo a licenziare un film parlato e cantato, La canzone dell’amore (1930). “Pittaluga mirava a un cinema commerciale ben fatto molto più che alla propaganda. Si prese i migliori operatori, Aldo Vergano ai soggetti, un altro antifascista come Tomaso Smith alle sceneggiature e registi che si erano fatti le ossa più o meno da soli e avventurosamente, come Blasetti e Camerini, affidando però a Righelli, che era un navigatissimo regista più europeo che italiano, il primo film importante della rinascita, il primo film italiano sonoro” (Sergio Amidei *). Stimato quanto Blasetti e Camerini, la storia non ha reso invece gloria a Righelli che è stato dimenticato dagli studiosi. Varrebbe la pena osservare l’utilizzo che fa della cinepresa, con movimenti continui, carrellate e zoom, piani sequenza, inquadrature ricercate (ad esempio quella in campo lungo con l’azione che si svolge dietro le finestre di uno stabile) e azzardate (riprendendo le sperimentazioni del cinema francese degli anni appena precedenti) come il viaggio in treno ansioso della protagonista, il suo allontanarsi disperato dalla casa del ricco, il suo desiderio di suicidio con l’inquadratura dei tetti romani che si deforma e diventa quasi psichedelica per esprimere l’incubo. Tutto ciò, è vero, in un racconto melodrammatico popolare, pieno di canzoni per esaltare il sonoro, e in cui la sceneggiatura, tratta da una novella di Pirandello, si adegua alle richieste del pubblico. Una coppia di innamorati si perde quando la donna scopre di avere un fratellastro neonato dalla madre morta subito dopo il parto. Con questo bambino, che comincia ad allevare come un figlio, perde tutte le sue ambizioni artistiche (era una musicista) e anche l’amore (non ha il coraggio di confessarsi all’amato per non rovinargli la carriera di compositore musicale e fa in modo di sparire da tutti). Due avvenimenti però, qualche anno dopo, le sconvolgeranno l’esistenza, reincontrare l’amato ora accompagnato ad un’amica da sempre gelosa di lei, e il ricco padre del bambino che aveva abbandonato la madre ma ora rivuole il figlio… Finirà bene anche se la tragedia era lì per compiersi. Qualcosa dei temi pirandelliani (il silenzio che non svela la verità, il cambiamento delle condizioni di vita dovuto ad avvenimenti inaspettati) resta ma tutto è “banalizzato”. Resta comunque la regia di Righelli che andrebbe rivalutata. “Non è un volgare strappalacrime. Nonostante il suo basso peso specifico, ha garbo e agilità narrativa con qualche pezzo di bravura registica.” (Morandini). “Di nessun interesse dal punto di vista della trama, ma importante sotto il profilo tecnico perché presenta un insolito dinamismo dei movimenti di macchina e sfrutta la profondità di campo visiva e sonora (voce e canzoni off) in modo originale. (Mereghetti). (Voto 6+)

Pittaluga muore nel 1932 a soli 45 anni e il suo posto alla Cines viene preso da Emilio Cecchi, personaggio di importanza fondamentale per l’industria cinematografica italiana. Cecchi produce nei primi anni Trenta due film di Camerini, il successo clamoroso di Gli uomini, che mascalzoni! e l’anno successivo T’amerò sempre (1933). Se il primo era la “commedia perfetta” per il tempo, una versione pauperistica alternativa alle commedie dei telefoni bianchi che di lì a poco prolifereranno, con un ritmo da commedia americana e freschezza di regia, il secondo fatica a reggere il confronto. La storia poteva diventare un melodramma popolare di quelli che andavano nel periodo, ma Camerini decide di farne più un osservatorio di condizioni e differenze sociali, di ingiustizie e di ipocrisia. Una donna rimasta orfana dopo il femminicidio della madre, cresce ingenua, sola e senza affetti e si lascia ingannare da un nobile spiantato, donnaiolo e cercatore di dote. Il t’amerò sempre del titolo è quello che dice il bellimbusto (Mino Doro, capelli imbrillantinati e faccia “giusta”) alla povera ragazza (interpretata da un’Elsa De Giorgi insolitamente trattenuta) per portarsela a letto. Lei resta incinta e lui la scarica senza pietà alla ricerca di donne meno carine ma più ricche. La ragazza cerca di rifarsi una vita tutta destinata alla cura della bambina che riesce grazie all’impiego presso un parrucchiere di grande fama. Qui lavora anche il modesto contabile interpretato da Nino Besozzi con occhiali e timidezza. Chiederà a lei di sposarlo ma la donna non vuole svelargli di avere una figlia senza padre. Riappare però il nobile padre che con impertinenza le chiede di diventare la sua amante sicuro di riconquistarla. Il finale agitato porterà ad una solidarietà tra i due solitari ed infelici per affrontare il cinico e insensibile uomo, allontanato quello chissà non trovino la pace nella modesta calma famigliare. Come si vede la traccia per un melodrammone c’era tutta ma a Camerini interessa di più far vedere le partorienti nel salone dell’ospedale con frammenti delle loro vite; il lavoro all’interno del salone di acconciature alla moda dove ci si deve prostrare alle richieste dei nobili clienti; il contrasto tra la festa a casa della ricca moglie di Doro (dove tutti sembrano vacui nel loro giocare a yoyo) e quella famigliare del fidanzamento della sorella del contabile, piccola borghesia dai buoni propositi; il secco e drammatico flashback dell’assassinio della madre-prostituta da parte del suo uomo-magnaccia. Una regia che va sempre più verso il lato umano dei personaggi che non verso gli eventi. “Il film (…) è un riuscito connubio tra la storia sentimentale dai toni melodrammatici, la moderata critica sociale che contrappone l’onesto e umile ragioniere al nobile dissoluto e l’interpretazione vigorosa di Nino Besozzi, scelto da Camerini che lo sentiva quasi come un proprio alter ego.” (Beppe Musicco, Camerini, Bibliotheka). “Una storiellina, ma messa in immagini dal regista in delicato equilibrio tra tenerezza e comicità, interni ed esterni con il notevole contributo dello scenografo Gastone Medin” (Morandini). “Camerini imposta la messinscena su un’intrigante dialettica di interni ed esterni, ora ripresi dal vero ora ricostruiti in studio con una maestria tale che spesso è difficile distinguere il documentario dalla finzione” (Mereghetti). (Voto 6+) Possibile che lo yoyo con cui giocano i nobili amici di Doro sia un product placement voluto visto che il “gioco” proprio in quegli anni arrivava dall’America.

Anche Blasetti viene chiamato a lavorare alla Pittaluga da Cecchi e tra i film da lui girati vi è La tavola dei poveri (1932), un film che mette in cinema una pièce burlesca di Raffaele Viviani. Lo stesso Viviani interpreta il protagonista, un nobile decaduto che si ritrova senza più un soldo e che viene invischiato in una fondazione di beneficenza per i poveri. Per non far sapere di essere al verde acconsente a partecipare e per questo cerca di vendere gli ultimi averi di famiglia. Quando un povero mendicante, che negli anni ha messo assieme notevoli risparmi, gli consegna una bella cifra di denaro da “amministrargli”, per un malinteso questi vengono creduti essere la somma destinata da lui alla beneficenza e così, vista la grossa donazione, si ritrova a diventare addirittura il presidente della Fondazione… con i soldi del poveraccio! Commedia degli equivoci, con un lato sentimentale rappresentato dalla figlia del nobile (Leda Gloria) che si innamora di un industriale e partirà con lui per la Bolivia. Anche qui la trama è robetta, anche qui però il regista, come i colleghi, fa di tutto per farla diventare cinema. Carrellate ampie, la macchina da presa non sta mai ferma, luce naturalistica, immagini documentarie sul lavoro all’interno di una fabbrica e dell’impiego di veri indigenti, la maestria della regia di Blasetti si fa sentire anche se per un piccolo film. Vi è inoltre il lato umanistico che mette in contrapposizione l’orgoglio, la dignità e la responsabilità sociale, a volte un po’ pelosa, dei ricchi verso la popolazione dei poveri per cui è lusso un piatto di minestrone. Chissà cosa ne pensavano i gerarchi mussoliniani. “Girato in gran parte in esterni a Napoli (con una lunga e curiosa scena <<documentaria>> in una fabbrica meccanica), il film non risente della sua origine teatrale e sfrutta le maglie larghe della storia per mettere in risalto l’abilità recitativa del protagonista che in un ruolo <<chapliniano>> si trova talmente a suo agio da dare addirittura l’impressione di improvvisare” (Mereghetti). (voto 6+) Tra le carrellate per le strade di Napoli spicca la pubblicità della ditta Bertelli, product placement voluto?

Altro film per far ridere, tratto da un radiodramma di Alessandro De Stefani, è O la borsa o la vita (1933) prodotto per far esordiente Carlo Ludovico Bragaglia, fratello di Anton Giulio, alla regia: “Cecchi comprese subito il valore di Carlo Ludovico Bragaglia dopo aver visto i suoi primi due documentari sull’incanto dell’isola di Capri, e gli affidò la realizzazione di un film tutto sospeso tra sogni e realtà (…) Bragaglia ebbe l’idea di far sostenere i ruoli di protagonisti a Sergio e Rosetta Tofano, già affermatissimi in teatro ma nuovi per lo schermo. Li affiancò a Luigi Almirante e Lamberto Picasso, affermatissimi in teatro anche in qualità di direttori delle proprie compagnie. Ne risultò un’opera originale e affascinante.” (da Carlo Ludovico Bragaglia di Leonardo Bragaglia, Paolo Emilio Persiani Ed.). La trama adatta poco più che a un cortometraggio (un agente di borsa, Tofano, investe ad insaputa di un suo cliente, Almirante, tutti i risparmi di quest’ultimo in azioni che crollano; sentendosi in colpa per aver rovinato l’uomo decide di stipulare un’assicurazione sulla vita a beneficio del cliente. Deve però trovare il modo di morire prima di mezzanotte e non per suicidio, ma per una disgrazia. Come causare la propria morte in modo “accidentale”?) viene utilizzata dal regista per creare una commedia ondivaga, nella prima parte vivacizzata da spericolate peripezie aeree “con la partecipazione straordinaria dell’asso dell’aviazione Mario De Bernardi”, poi diventa una specie di comica Keystone con inseguimenti di masse di gente al protagonista, infine, la parte più gustosa e stilisticamente elaborata, una sequenza onirica surrealista omaggia dichiaratamente l’avanguardia di René Clair. “Commedia bizzarra, surreale e intelligente” (Morandini); “E’ un piccolo capolavoro di cinema puro, la cui scatenata comicità nonsense, messa in moto dall’equivoco iniziale, deve molto alla lezione del muto.” (Mereghetti). (voto 6,5)

Cecchi che aveva in mano ormai la strategia produttiva della Cines decise di voler aumentare il tasso qualitativo dei film del periodo cercando di uscire dalla mera propaganda. Cercò di ingaggiare intellettuali e scrittori per le sceneggiature e registi capaci e nuovi. Conciliando i desideri sia dell’apparato fascista che voleva la celebrazione della fatica e del buon lavoro dell’italiano e allo stesso tempo confermare i buoni rapporti con la Germania, chiamò Luigi Pirandello a scrivere un soggetto (l’unico scritto appositamente per il cinema dal premio Nobel siciliano) da ambientare a Terni con protagonisti operai dell’industria siderurgica, uno dei vanti dell’Italia e della Banca Commerciale Italiana che finanziava la casa di produzione. A dirigere chiamò il regista tedesco Walter Ruttmann, conosciuto per i suoi esperimenti avanguardistici e le sue sinfonie visive. Il film che ne uscì fu Acciaio (1933) e si può leggere tutto quanto riguarda il suo concepimento e la sua realizzazione sulla completissima pagina di Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Acciaio_(film_1933). Qui diciamo solo che le due anime, quella avanguardistica e prettamente visiva di Ruttmann non andava d’accordo con la drammaturgia teatrale di Pirandello che non prese bene la svolta “artistica” che mise in secondo piano quella narrativa. Infatti al regista interessava continuare i suoi esperimenti sul linguaggio cinematografico e trascurò abbastanza la parte drammaturgica, mentre dedicò lunghe sequenze alle riprese del duro lavoro della fabbrica tra il documentaristico e il film d’arte. Le macchine e i forni che fondono il metallo vengono riprese nei loro movimenti ritmici con la musica a fare da corollario come se fosse una danza inanimata: la sinfonia della fusione. Ma anche quando esce da lì ogni luogo ed ogni avvenimento sono buoni per creare sequenze simmetriche e avanguardistiche, vuoi che sia una corsa ciclistica con la sua folla, vuoi che sia un lavatoio con le donne che battono i panni, vuoi che sia un deposito di biciclette, vuoi che sia una fiera di paese. Insomma una meraviglia visiva ma anche un allontanamento notevole da un’opera di fiction come se l’aspettava il pubblico. (voto 6/7) Necchi e Gancia appaiono come pubblicità e product placement del film dove si vede anche la Gazzetta dello Sport.

*L’avventurosa storia del cinema italiano, a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna.

Stefano Barbacini

© www.dysnews.eu