Intanto diciamo cosa non è I tre moschettieri (1974) di Richard Lester. Non è un “normale” film di cappa e spada con avventurieri alla Errol Flynn che saltano, combattono e compiono eroismi. Non è un “normale” adattamento allo schermo di un libro d’avventure storiche di quelli accademici che ripropongono esattamente quello che è scritto sulle sue pagine. Non è neppure un consueto film di Lester: spariscono le soluzioni azzardate di regia, c’entra poco con il free cinema inglese, non è un’opera sperimentale. Però tutto sommato non è un’opera che non ha niente a che fare con l’autorialità del realizzatore. Infatti è un film “comico” storico come lo era, ad esempio, Dolci vizi al forum, è un film di avventure picaresche, ambientato tra Francia e Inghilterra ma girato a Madrid e dintorni, in cui i tre eroi sono tutto meno che “eroici”, appunto. D’Artagnan appare all’inizio piuttosto stolto e pezzente, gli altri tre, Athos, Porthos e Aramis sono perdigiorno senza soldi e un poco ladri. Non sono neppure grandi spadaccini dato che il più delle volte non è la loro bravura con le armi a far loro vincere i duelli (e spesso li perdono pure…), ma è la furberia o l’utilizzo di altri oggetti a salvarli. Gli scontri di “scherma” assomigliano, più che a combattimenti all’arma bianca coreografati da maestri di scherma tipo Scarmouche, a risse alla Bud Spencer e Terence Hill. Le maglie sudice, la pioggia, il viaggio alla Don Chisciotte e Sancho Panza, lo fanno sembrare un innesto innaturale tra classicità, comicità e tortilla movies. La maniacale attenzione di Lester per la ricostruzione e l’utilizzo di oggetti d’epoca, per l’arredamento adeguato alle situazioni (dalla pulciosa e disastrata stanza data a D’Artagnan, su su fino alle lussuose stanze della Reggia), mai impersonale o “buttato su”, rendono questo film, che segna comunque l’adeguamento di Lester al mainstream o, secondo Christian Viviani sul Dictionnaire du Cinema, Larousse, il rinnovamento del mainstream: “Bisogna attendere il 1974 e I tre moschettieri perché Lester entri definitivamente nel suo periodo di completezza e maturità. In totale controllo del mestiere (trovate visive una dietro l’altra, un senso poco comune dello spazio, una gestione dei tempi senza difetto), egli impone un’energia nuova di cui il film romanzesco aveva un bisogno vitale”, vivace e mai paludato nella pedanteria della tradizione del genere. Come valore aggiunto la squadra incredibile di attori e attrici che è riuscito ad avere a sua disposizione (Carol Reed, Raquel Welch, Richard Charmberlain, Michael York, Frank Finlay, Christopher Lee, Geraldine Chaplin, Jean-Pierre Cassel, Roy Kinnear, Faye Dunaway, Charlton Heston). Diverso da quanto rilevato dal già citato Viviani, rintraccio una recensione di Tullio Kezich (Il Millefilm, Oscar Mondadori) che lo condanna proprio per il suo allontanamento “modaiolo” alla tradizione anche se dapprima sembra averne apprezzato qualche soluzione: “Mai vista una Parigi sudicia come quella in cui il celebre guascone viene a fare le sue prime bravate: e Michael York si muove sullo sfondo insolito con una rozzezza piuttosto cattivante” alla fine lo massacra: “Passerella di divi distratti e fuori parte, rassegna di duelli degradati a risse scomposte, I tre moschettieri è una di quelle operazioni oggi di moda, fatte contro un testo famoso che si vendica imponendo da un certo momento in poi le sue leggi e i suoi ritmi immodificabili”. Più accomodante il commento del Mereghetti nel suo di dizionari: “Scanzonato e divertito adattamento del romanzo di Dumas (…) che mescola gag uscite dalla tradizione slapstick (…) a notazioni realistiche capaci di smitizzare la mitologia eroica del libro di Dumas (non c’è uno scontro in cui i duellanti rispettino le regole).” Secondo Morandini (più in linea con Viviani) “è la più anticonformista, spiritosa e dissacrante versione del celebre romanzo”. (Voto 6,5)
Subito dopo l’uscita del primo capitolo esce (alla fine de I tre moschettieri addirittura vi era già un trailer del secondo) I quattro moschettieri: Milady (1974), con lo stesso cast e la stessa troupe, i film sono stati girati evidentemente insieme. Protagonista principale di questo secondo episodio è, come da titolo, Milady, ovvero una bellissima, astuta e malvagia Faye Dunaway. Subito lo smacco alla fine del primo episodio, la sua sete di vendetta si scatena contro D’Artagnan (che seduce e lui la ama “con la testa”) e la prosperosa serva interpretata da Raquel Welch, amata “con il cuore” dal moschettiere (che Milady fa rapire e poi D’Artagnan riesce a liberare). Mandata in missione in Inghilterra dalle due menti oscure, Richelieu (Charlton Heston) e Rochefort (Christopher Lee), per neutralizzare il duca di Buckingham, riuscirà nell’intento seducendo addirittura un rigido calvinista. Intanto i moschettieri sono in battaglia contro i protestanti. Resta in sospeso la vendetta di Milady contro D’Artagnan e la sua amata. Quest’ultima è stata portata in un convento e sembra in sicurezza. Ma la terribile coppia Milady-Rochefort scopre il rifugio e si avvia per prelevarla e per attirare D’Artagnan in trappola. Sconto finale tra gli uomini di Rochefort e i Moschettieri riuniti e personale tra Dunaway e Welch. Inutile ripetere osservazioni che sono buone anche per questa seconda parte, anche se in Milady, pur restando una parte comica con i moschettieri-guasconi, ad esempio durante la battaglia contro i protestanti, in realtà l’ultima mezzora ci mostra un indurimento negli scontri che non sono più divertenti ma crudeli e la morte giunge a più riprese in modo “serio”. Un cambiamento che toglie il sorriso dalle labbra per qualcosa di più intenso e cupo. “Seconda parte dell’irriverente e scanzonata versione di Lester. Meno felice della prima, ma qui rifulge la Dunaway che fa di Milady una criminale fascinosa.” (Morandini). (voto 6,5)
Lo sceneggiatore de I tre moschettieri, George Macdonald Fraser era stato chiamato a mettere la sua visione accurata e allo stesso tempo ironica sulla Storia da Richard Lester con l’idea prima o poi di trasporre in film uno dei suoi romanzi dedicati a Harry Flashman, eroe sui generis, fanfarone e donnaiolo, molto simile per questo al D’artagnan creato per il film precedente di Lester. Ciò avviene, probabilmente anche grazie al successo dei due film sui Moschettieri con Royal Flash (1975). Qui siamo nella seconda metà dell’800 nel regno di Baviera dove l’eroe di guerra (millantatore di gesta non effettuate) Harry Flashman viene chiamato dalla volitiva e sadica ninfomane Lola Montez con cui aveva avuto una storia di sesso in Inghilterra. La figura di Lola Montes, avventuriera realmente esistita e la cui vita è stata portata sullo schermo da Ophuls nel capolavoro Lola Montes (1955), viene qui interpretata da una Florinda Bolkan e praticamente prende il posto della Milady di Faye Dunaway. Lola Montez fu, come nel film, realmente l’amante di Leopoldo I di Baviera e ne causò l’abdicazione a seguito di un’insurrezione popolare contro la richiesta di legalizzare l’amante. In questo contesto la Bolkan, sexy e caliente, attira l’ingenuo Flashman (Malcom McDowell) e lo fa finire in un ginepraio ordito da Otto Bismarck (dipinto come campione di real politik estrema fino all’omicidio…) interpretato da Oliver Reed e dal Rudi Von Sternberg (questo personaggio inventato dal romanziere) di Alan Bates che in pratica replicano la coppia Richelieu-Rochefort. Insomma come Fraser e Lester avevano “trasformato” il romanzo di Dumas con la loro abilità in commedia storica, ora replicano con il testo di Fraser stesso. L’avventura prosegue con Flashman costretto a prendere il posto di un nobile che deve sposare la regina (Britt Ekland) di un piccolo stato germanico dato che gli assomiglia come una goccia d’acqua. Siamo dalle parti de Il prigioniero di Zenda e McDowell si sdoppia in due personaggi diversi. Il film è divertente come i precedenti e Lester si impegna a ricreare le ambientazioni e le macchine del tempo: una doccia “a pedali”, una specie di triciclo, una sala torture attrezzata ecc… Un film per il grande pubblico che non ha lo stesso successo dei precedenti “storici” di Lester forse perché la sua formula comincia a standardizzarsi. (voto 6)
Indubbiamente il punto più alto raggiunto da Lester tra le sue opere in costume arriva con Robin e Marian (1976), un film toccante, con un’ironia amara di fondo e momenti altissimi come ad esempio la morte di Re Riccardo al fianco dell’amico di sempre Robin Hood (che poco prima voleva far squartare…), il ritorno nella foresta di Robin e Marian che ricordano i bei tempi andati, il finale di assoluta tristezza senza essere sentimentale. La sceneggiatura di James Goldman, colui che ha scritto in precedenza il bellissimo Il leone d’inverno (1968), è complessa e densa di argomentazioni (l’amicizia virile, l’invecchiamento, l’amore, il sacrificio, l’incapacità di crescere e maturare) seppur inserite in un contesto popolare, riesumando eroi tra storia e leggenda come Robin Hood e la sua banda di ribelli contro i potenti e a favore dei poveri. Goldman si immagina un Robin Hood che andatosene da Nottingham al seguito di Riccardo Cuor di Leone alle Crociate ha da tempo abbandonato la “sua” foresta e l’amata Marian. Dopo tanti anni, anziano e acciaccato, con il fido Little John al seguito, ritorna a Nottingham dove ritrova una situazione di soprusi e ritrova anche Marian fattasi suora. Indomito e incapace di scegliere una vita finalmente di riposo e amore con Marian (che per lui abbandona l’abito religioso) ricostituisce la sua banda con contadini e alcuni compagni di allora, per ricominciare a combattere lo Sceriffo di Nottingham e sfidarlo personalmente. Richard Lester, dal canto suo, ci consegna sequenze memorabili e porta ai massimi livelli la sua gioia nella ricostruzione del contesto storico e nella scelta delle ambientazioni. Il corteo funebre di Riccardo Cuor di Leone (Richard Harris) che passa ai bordi di una cava, la ricostruzione di Nottingham con capanne fatiscenti e poveracci che chiedono l’elemosina e vengono oppressi dallo Sceriffo (Robert Shaw), il convento-fattoria in cui si è rinchiusa e di cui è diventata badessa Marian (Audrey Hepburn), le ragazze che giocano a volano con racchette come doveva essere allora, la ricostruzione di un carro che porta vettovaglie con cui Robin (Sean Connery) e Little John (Nicol Williamson) entrano nel villaggio, le cantine-prigione in cui vengono rinchiusi, la fanghiglia in cui ci si muove, l’accampamento di Giovanni Senzaterra (Ian Holm), i costumi, la vestizione dello Sceriffo prima della battaglia finale, tutto minuziosamente scelto e ricreato. Questa pellicola è anche quella che porta al punto più alto la smitizzazione della storia, che già Lester ha affrontato nelle opere precedenti seppellendola con l’ironia mentre qui la melanconia la fa da padrona, soprattutto nella figura di Re Riccardo: “Il personaggio di Riccardo Cuor di Leone, capriccioso e disperato, amichevole e crudele, evidentemente preso d’esempio per vari sovrani shakespeariani, vi incarna la figura più completa dell’inconsistenza e della disillusione, mentre la leggenda lo ha fatto diventare un perfetto cavaliere” (Alain Masson, Les films historiques de Richard Lester, Positif 745). Commenti: “è un film gentile e graffiante nello stesso tempo, derisorio nei riguardi dei miti consacrati, fedele a una concezione cavalleresca della realtà” (Kezich, Millefilm, Oscar Mondadori). “Struggente rilettura del mito di Robin Hood sceneggiato con grande finezza da James Goldman che fonde l’appassionata storia d’amore di due innamorati che la realtà ha sempre diviso (e che solo la morte unirà) con una rivisitazione del personaggio capace di mescolare la passione popolaresca con il distacco dell’ironia” (Mereghetti) (voto 7+)