Pensavo che ormai i softcore concepiti come negli anni ’80 (Joe D’amato, Jess Franco, Lorenzo Onorato, Mario Bianchi, Giuliana Gamba, Fred Olen Ray ecc.) fossero spariti, residui anni Duemila si possono considerare i leccatissimi prodotti televisivi della Playboy e alcuni prodotti similari ma sono altra roba. Invece mi imbatto nel film Manini Lip (2025), prodotto quindi recentissimo (e che già potete trovare in rete), di produzione filippina. Evidentemente da quelle parti questi film funzionano ancora (lo deduco anche dai “consigli” di visione che mi dà Imdb andando sulla pagina del film, il sito mi dà alcuni consigli su altri titoli probabilmente dello stesso tipo). Il film ha una trama noir molto annacquata, ma è principalmente una sequenza di rapporti sessuali, anche piuttosto spinti. In pratica, il fotografo Alex, a cui decisamente piacciono le donne, ha un rapporto intimo con la bella e malmaritata Martha, ristoratrice che conduce un ristorante “all’aperto”, quei localini a conduzione famigliare tipici asiatici con un bancone pieno di pentole e alcuni tavolini all’esterno dell’abitazione dei proprietari. Il giovane rischia grosso perché il marito dell’amante è un bruto delinquente che ha contatti con poliziotti corrotti e boss della malavita e costringe la moglie e l’aiutante Luisa, una giovane che l’aiuta nella preparazione dei piatti, a rapporti a tre sotto minaccia di una pistola. Il fotografo, naturalmente, ci mette poco a far sesso anche con Luisa rischiando ancora di più. Detto così sembra un film voyeuristico e maschilista ma in realtà il finale è tutto pro-indipendenza femminile. Chiaro che stiamo parlando di un filmetto per spettatori pruriginosi, ma faccio fatica a massacrarlo criticamente. Un po’ appunto per quell’aspetto fuori tempo che mi ricorda gli ardori pieni di curiosità giovanili, un po’ perché amo la genuinità del cinema filippino da sempre, un po’ perché le attrici (Ashley Lopez e Rinoha Halili) sono nudissime e bellissime senza essere “costruite” in palestra o con ritocchi “plastici” e riescono ad essere decisamente sexy anche in ciabatte. (voto 5,5) Fuga in Mitsubishi, macchina fotografica Sony, flash Kodak e product placement per la Salsa Cola di cui una pubblicità spicca davanti al “ristorante”.
L’idea di He went that way (2025) non era male. Tratto da una storia vera, vede protagonista un addestratore di scimpanzé, Jim (Zachary Quinto, lo Spock dei rinnovati Star Trek di J.J. Abrams) che deve attraversare buona parte degli States per arrivare a Chicago dove ha trovato una ricca eccentrica che vuole comprargli la “scimmia” Spanky, a suo modo una celebrità che si esibiva come scimpanzé pattinatore finendo anche in show televisivi. Lui e la sua scimmia incontrano sulla strada lo psicopatico assassino Bobby (Jacob Elordi: il nuovo James Dean?) e gli danno un passaggio. Inizia così un road movie attraverso il deserto statunitense di più giorni in cui il rapporto tra i due (Jim scopre suo malgrado che Bobby è un delinquente ma continua la strada con lui un po’ per paura, un po’ per affetto) si fa prima complicato, poi solidale, infine quasi di amicizia. Il difetto del film è che scorre via senza particolari idee brillanti e diventa un tantino noioso. Secondo il sempre pungente San Helving (Mad Movies) è stato “scritto con delle manopole bagnate (moufle mouillées, espressione francese per dire fare le cose in malo modo ndr) da un certo Evan M. Wiener. Un autore da tenere d’occhio, nel senso poliziesco del termine.” Si salva il buon senso dell’immagine del regista e una bella colonna sonora. Il regista è Jeffrey Darling, noto direttore della fotografia australiano qui al suo primo e ultimo film da regista. Ultimo perché purtroppo Darling, a soli 60 anni, è morto in un incidente di surf. (voto 6-) Solo la Chevy dello psicopatico e una citazione per le Camel nel product placement del film.
Prachya Pinkaew è il regista che ha dato una svolta al cinema action assieme a colleghi tailandesi e indonesiani portando a un livello di acrobazie e adrenalina, difficilmente visti prima, i combattimenti continui e velocissimi. I titoli fondamentali sono i famosissimi Ong-bak, The protector e Chocolate. Su Sky al momento si trova il suo primo film di produzione americana con attori statunitensi come Kevin Bacon e il protagonista, Djimon Hounsou. Naturalmente il film è massacrato dai fan di Pinkaew a prescindere, con la solita tiritera “quando gli artisti orientali vanno a Hollywood fanno film brutti”. Spesso in verità tendono ad esagerare la qualità dei film precedenti e ad essere prevenuti su quelli esteri. E non tengono conto che non si può sempre fare film pieni di combattimenti ed avere sempre l’originalità di non tediare, sia che si vada in America sia che si resti nel paese d’origine. Detto questo, Elephant white (2011) è effettivamente un film diverso, nel senso che i combattimenti di arti marziali sono quasi totalmente azzerati mentre molto più di filosofia americana (lo sceneggiatore lo è) sono tanti gli scontri a fuoco e con auto. Armi supermoderne ed enormi Mercedes per il protagonista Curtie Church (Hounsou) che vuol sgominare una banda di sfruttatori di ragazzine minorenni che le drogano e fanno prostituire. Per fare ciò chiede l’aiuto dell’ambiguo Jimmy (Kevin Bacon) tenutario di bordello (ma con prostitute “volontarie”…) e trafficante di armi, e, inaspettatamente, di una ragazzina, Mae, che gli fa da guida spirituale e lo aiuta a trovare i capi della banda essendo stata anche lei una di quelle piccole prostitute. Naturalmente Curtie comincia ad ammazzare un po’ tutti e deve difendersi da alcuni doppiogiochisti. Il film non è così brutto come si dice, mantiene anzi un tocco thai mischiando l’azione con spiritualismo tipico dei paesi orientali. Si può vedere senza gridare ad un supposto “tradimento” da parte di Pinkaew. (Voto 6) Detto di Mercedes, nel product placement troviamo le camice di Bacon di Versace e di Paul Smith, e un telefonino Nokia.