Davanti a noi è la casa del commesso viaggiatore. Dietro, s'intravedono forme torreggianti, angolose, che la circondano da ogni parte. Solo la luce azzurra del cielo cade sulla casa (…); lo spazio intorno brilla di torvi riflessi arancione. Man mano che si fa luce, vediamo una solida volta di grattacieli circondare la piccola fragile casa. Un'atmosfera di sogno aleggia attorno a essa, un sogno che nasce dalla realtà.
La New York di Arthur Miller degli anni ’50 sta effettuando il suo passaggio alla modernità tramite l’espansione (speculazione?) edilizia che la renderà la metropoli di oggi. Questo passaggio sta avvenendo ora anche a Teheran dove vecchie case, abitazioni famigliari agli abitanti (come ad esempio alla coppia protagonista di Il cliente), vengono costrette alla demolizione dall’avanzare delle ruspe. La modernità a cui le vite delle persone fanno fatica ad adattarsi, proiettate verso un futuro con tutti i piedi ancora ancorati in una pesante tradizione che va in un altro senso.
Anche due intellettuali come Rana e Emad, attori di una locale compagnia (lui è anche professore di scuola) che sta rappresentando proprio il testo di Miller in incipit, quando vengono colpiti da un avvenimento che ne scuote le certezze, si ritrovano a non essere più in grado di controllare i propri sentimenti e le proprie azioni.
I due sposi grazie ad un interessamento di un amico vanno ad abitare in un appartamento appartenuto (a loro insaputa) ad una prostituta e quando un cliente, pensando che la ex-inquilina abiti ancora lì, entra in casa sorprendendo la nuova abitante sola in casa, sotto la doccia, succederà un atto di violenza che farà ritrovare la donna a terra quasi morta con la testa rotta.
Cosa è successo nei dettagli non lo si saprà mai (violenza carnale? caduta accidentale contro il vetro della doccia?) la cosa che però avviene è che a causa di atavici tabù il fatto non viene denunciato e i due dovranno sopportare questo peso nel proseguio della loro vita che non riesce più ad essere “normale”. Vergogna, paura, rabbia, orgoglio. Ma soprattutto vendetta. Catartica vendetta che Emad cercherà di ottenere andando a cercare l’uomo autore del misfatto. Trovatolo scoprirà una miseria umana peggiore della loro e il finale, mentre i due tornano sul palcoscenico e indossano la “maschera” dei falliti del dramma milleriano, ci dice che tutti siamo un po’ “il commesso viaggiatore”, vittime e colpevoli.
Il film è denso, reso più corposo dalle varie ramificazioni politico-sociali che rappresentano ormai uno dei segni distintivi del cinema di Asghar Farhadi (ormai autore affermato internazionalmente dopo i suoi Una separazione e Il passato), infatti attorno alla vicenda personale di Emad e Rana si intrecciano i problemi di una città e di una nazione che stanno tentando di uscire da un’impasse. La sceneggiatura del regista stesso che ha vinto il premio a Cannes riesce a non scappare mai via dalla strada principale nonostante incroci sul suo cammino problemi di convivenza urbana, di sessualità repressa, di infrastrutture che cedono, di violenze sotterranee pronte ad esplodere (da esempio tra allievi e professori), di libertà di insegnamento e rappresentazione, di miserie economiche e umane.
Non c’è product placement insistito nel film ma presenza di molte brand da quelle d’auto come la PEUGEOT del protagonista, una SUZUKI ben inquadrata e la BMW citata. Poi abbiamo un computer ASUS, una radio PANASONIC, l’I-PHONE tra gli oggetti usati. Infine su scatoloni che si trovano un po’ ovunque abbiamo INVICTA, CANADA DRY, DOLE e altro.