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CINEMA
13 Agosto 2025 - 13:14

DIARIO VISIVO (Jean Gremillon 3)

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Il periodo dei capolavori
DIARIO VISIVO (Jean Gremillon 3)

Il periodo dei film su commissione “per il pane”, finisce nel 1937 quando Grémillon riesce a dirigere la coppia Jean Gabin e Mireille Balin, protagonisti anche del più noto, internazionalmente, Il bandito della Casbah dell’anno precedente, per il film Gueule d’amour. Ma soprattutto ritrova il suo sceneggiatore di fiducia già dietro a La petite Lise e a Dainah la metisse. Melodramma perfetto secondo molti per come riesce a capovolgere il rapporto uomo-donna e le sue dinamiche. Jean Gabin è Lucien Bourrache, detto Gueule d’amour mentre fa parte delle forze coloniali, gli Spahis di stanza ad Orange. Il soprannome deriva dal fatto che tutte le donne gli corrono appresso e lui opera da sprezzante dongiovanni. Quando lascia l’esercito, in vacanza a Cannes, si innamora di una femme fatale, una donna misteriosa che lo circuisce, si fa dare denaro che sperpera al gioco, poi però, promettendogli una notte di sesso, sparisce. Lucien si ritrova così a Parigi dove trova lavoro come tipografo conducendo una vita anonima e ben diversa dalle glorie passate, qui Gueule d’amour non significa niente. Dopo alcuni mesi reincontra la donna, Madeleine (Mireille Balin “forse la più americana e la più moderna delle attrici dell’epoca”)(VI), che vive in un lusso sfrenato e che gli si concede apparendo innamorata. Lucien non può più fare a meno di lei e la vorrebbe in ogni momento. Madeleine però è la mantenuta di un anziano facoltoso di Deauville e quando Lucien lo scopre fa una scenata sicuro della forza del sentimento e della sua mascolinità, ma Madeleine lo “gela” cacciandolo per non perdere il proprio protettore. Tornato ad Orange dove ormai non è più nessuno, inizia l’attività di locandiere finchè la donna del passato non si fa rivedere tramite un amico di Lucien. Le propone di continuare la loro storia d’amore ma si capisce presto che Madeleine è una manipolatrice che non ha scrupoli a disfarsi dell’amico di Lucien, che aveva fatto innamorare, e che la proposta prevede che continui a farsi mantenere dall’anziano. Finirà in tragedia con Gabin in lacrime (in una reazione tipicamente femminile) tra le braccia dell’amico a completamento di un’erosione completa del machismo di inizio film. Il dongiovanni in questo caso era Madeleine e i due uomini non possono sopportarlo. “Una fabula del genere, in altre mani, sarebbe stata soltanto il banale canovaccio della vicenda moralistica di un seduttore sedotto. Ma la finezza della regia di Grémillon lo trasforma nel dramma di una perdita dell’identità dove le dinamiche legate alla disparità sociale diventano determinanti.” (VIII). Alcuni vi hanno visto uno scivolamento da tombeur de femme verso l’omosessualità, un po’ forzato. “Grémillon partendo dall’immagine virile di Gabin la femminilizza a poco a poco, fino a concepire la scena finale più osée del cinema francese degli anni 30 – l’abbraccio di due uomini sperduti in una stazione. Detto questo, ridurre la proposta gremilloniana a una lettura gender studies molto di tendenza, risulterebbe inappropriato, addirittura ridicola, perché vorrebbe dire evitare di comprendere il senso profondo – melodrammatico nel senso puro del termine – della realizzazione di questo film.” (*) Invece è più corretto vederne l’”ascensione della donna verso altezze glaciali e la caduta dell’uomo in abissi infernali (…) il lirismo francese racconta non tanto l’identificazione di una coppia, ma la nascita di due solitudini di cui l’irriducibilità testimonia anche la modernità di questo cinema (perché il cinema moderno inventa personaggi solitari, là dove il cinema classico tesse i legami profondi del mondo)” (VI). Stephane Delorme lo definisce “il film più compiuto del cineasta dal punto di vista plastico, la sua sola collaborazione con il direttore della fotografia tedesco Gunther Rittau (Metropolis, L’angelo azzurro). Nella scena dell’omicidio, vediamo improvvisamente Mireille Balin nell’oscurità come un animale in agguato. Poi è il turno di Gabin, braccia oscillanti, a somigliare ad un animale cacciato. Grèmillon filma le tasche di penombra, l’entrata in un mondo sconosciuto. E’ il cineasta dell’attimo dopo, quando il male è già fatto e l’essere deve convivervi.” (vii). E finiamo con un’esaltazione da parte di Paul Vecchiali (che probabilmente ha preso spunto per la sua eroina in Rose la rose, femme publique): “Grémillon lascia in sospeso l’ambiguità che i dialoghi di Spaak contengono. Filma con una camera nitida per mostrare la mutazione di Gabin. Mai un attore è stato così coraggioso. Le sue lacrime nella sequenza finale, la sua disperazione, questa follia latente che lo possiede, sono i segnali di un talento potente e generoso. Marguerite Deval, incredibile madre parassita, Jean Ayme ineffabile cameriere un po’ troppo stilizzato, Robert Casa, il protettore di una dignità rara nella sua scena quasi muta, non sono comparse ma personaggi veri. Uno dei film più belli del mondo e uno dei più importanti, non possono esserci dubbi.” (V) (voto 7). Incredibile per i tempi la serie di marche e pubblicità presenti, un product placement a livelli dei blockbuster attuali. Iniziamo dall’immancabile Byrrh per proseguire lato bevande con Carlsberg, vino Pouilly, champagne St. Marceau, una di gin, la biere du dragon… poi i luoghi, Hotel Buffalo, Restaurant A la grille, Casino deux Grands e altri. Una corriera riporta il nome della ditta Sinard & fils con tanto di numero di telefono e indirizzo e in una sequenza in cui Gabin cammina per strada vengono inquadrati manifesti pubblicitari del già citato St. Marceau, poi lo spettacolo Ione & Brieux, Chocolat Menier e sigarette Balto. Inoltre all’interno della tipografia si stanno stampando flani pubblicitari per spettacoli probabilmente in corso a teatro nel 1937 pubblicizzandoli.

Il film successivo è Lo strano signor Vittorio (1938), è un noir ma che indaga più che altro i rapporti di coppia, insoddisfatti e senza amore, che si formano durante la trama. Il calzolaio di Tolone, Bastien (Pierre Blanchar) ha un rapporto conflittuale con la moglie di cui è geloso fino ad avere una lite per strada con un ladro di professione che fa la corte alla donna. La scena che segue è emblematica del tono del film. Quando i due si ritrovano a cena lei si lamenta, urlandogli contro, del comportamento del marito che sembra incassare fino a che non scaglia il piatto ad infrangersi contro il muro e se ne va ad ubriacarsi. Mentre Bastien è in una bettola a bere, ci viene presentato il signor Victor, proprietario di un negozio di tessuti che sta avendo un figlio dalla moglie. Ci sembra di vedere il tipico borghese tutto lavoro e famiglia, una brava persona. Ma poi lo vediamo trafficare con dei ladri facendo da ricettatore e finire ricattato da quello che aveva discusso con Bastien. Victor vedendo minacciata la propria famiglia uccide l’uomo utilizzando un attrezzo di lavoro del calzolaio. Victor è interpretato da un Raimu perfettamente a suo agio a passare dal volto rassicurante del buon padre di famiglia a quello del feroce affarista e assassino. “Raimu non lo abbiamo mai visto così tragico (…) e se, a volte, i suoi tic riaffiorano, tic incoraggiati da dialoghisti servili, sono da attribuire a un personaggio braccato, imbarazzato dal rimorso e dalla paura, sentimenti prima estranei. In questo film raggiunge nuove vette” (V). Si passa bruscamente al carcere della Guyana dove è rinchiuso Bastien che evidentemente è stato accusato ingiustamente dell’omicidio. Dal carcere apprende che la moglie ha divorziato e che vive con un altro uomo con il figlio avuto da Bastien. Sette anni dopo Bastien fugge e torna a Tolone rifugiandosi a casa di Victor che, preso dal senso di colpa, lo nasconde. Il ritorno dell’uomo metterà in evidenza alcune situazioni degenerate. L’ex-moglie si è risposata con un farabutto (anche questo in combutta con Victor) che non ama e da cui non è amata e il ragazzo di Bastien è stato allevato giusto per diventare un delinquente come il patrigno. Inoltre in casa di Victor si scopre che la moglie di quest’ultimo è una donna frustrata e trascurata. La situazione si farà esplosiva quando la moglie di Victor e Bastien si innamorano uno dell’altra… forse l’unico vero amore è quello “impossibile”? E’ quindi un noir sui generis, un noir-realista per come lo stesso Grémillon definiva il realismo: “presa di contatto con ciò che non è immediatamente dato dai nostri sensi – con quello che li oltrepassa: con l’essenziale. Qualche volta è un singhiozzo, un gemito, un’altra un grido di gioia: è sempre un accento autentico.” Sta qui ad esempio l’attrazione da cui la moglie di Victor tenta di difendersi senza negarla. Ma questo realismo… strisciante dentro a una forma di genere sta “nei dialoghi, a volte sottili altre enfatici (per rappresentare il folklore di Tolone)(…) Né entomologo, né indifferente, Grémillon porta su queste genti ordinarie uno sguardo carico di rispetto e di attenzione.(…) Bisognerebbe citare tutti i piani girati per questo film, stupirsi del modo in cui Tolone è stata ricostruita negli studi di Berlino senza perdere la sua vitalità (…) Ci sono dei film che ti rendono felici. Ce ne sono altri che, oltre a questo, ti colmano con la loro complessità, la loro intelligenza (mai esibita) e anche per quello che esigono. Dei film, liberi, che provocano in noi emozioni pure” (V). “E’ un film spiccio, senza tempi morti, al servizio di una vigorosa e sottile interpretazione di Raimu. Di suo il regista ci mette una sagace descrizione d’ambiente, la cura dei particolari, l’abile progressione di un dramma latente” (da Il Morandini) (voto 6/7). Grémillon si affida ancora a manifesti a muro che fanno da sfondo ad alcune scene in esterni per il product placement che allinea: aperitivo Suze, gioielli Arlatte, vino Napoleon, Pernod, Creme Eclipse e anisette Marie Brizard. Continuamente citato invece il quotidiano di Tolone, Le petit Var.

Tempesta atmosferica e tempesta dei sentimenti, legami tra navi che si spezzano come quelli tra gli uomini, l’apparizione di una donna che è una furia in mezzo al mare ad erodere il roccioso capitano del rimorchiatore che di mestiere salva ed evita naufragi ma sarà lui stesso a naufragare. Il film più famoso di Grémillon è Tempesta (Remorques, 1941) e come al solito l’ambientazione e il genere, ovvero il contorno, hanno più visibilità del nocciolo del film, ovvero i rapporti umani il cui spazio si riduce ad avvenimenti secchi, senza mai indugiarvi. Lo stile del regista è questo, utilizza la metafora per non scadere nel sentimentalismo ma i suoi film contengono più passione di centinaia di opere melodrammatiche che invece la trappola non la evitano. Due esempi. Apprendiamo che la moglie del protagonista, vissuta per anni all’ombra del marito spesso lontano da casa perché di mestiere fa il capitano di un rimorchiatore per recupero di navi in difficoltà, è gravemente malata e si confessa con una fresca sposa destinata ad un futuro simile al suo. Invece di indugiare avvicinandosi alle due donne la cinepresa si allontana, esce dalla finestra e a noi resta un quadro di dolore sullo sfondo. In seguito, il capitano, uomo tutto di un pezzo e maschilista non poco “ti piace avere la sicurezza del possesso delle tue cose, la Tua nave, il Tuo equipaggio, Tua moglie per far vedere quanto sei uomo” le dice in pratica la moglie ad un certo punto, si lascia conquistare dalla bellezza magnetica della naufraga arrivata a terra, Catherine (“Catherine è un’ondata di schiuma che arriva sul ponte, uno spirito eterno, che viene e se ne va, un folletto fantasma. Quando il capitano Laurent s’innamora di lei, entra in un’altra vita, come se le luci si spegnessero improvvisamente e lo lasciassero nella penombra”) (VII). I due sono in una casa sul mare, finora si sono detti poche parole. La cinepresa è ancora fuori dalla finestra, i due si baciano quasi fosse impossibile non farlo. La cinepresa si sposta e inquadra altro. Tutto è così secco e netto. Poi la parte dell’ambientazione del film. Il regista gira in Finisterre, regione della Bretagna, fine della terra, dove anche Epstein e Dulac amavano andare. Qui meteo e sentimenti sono duri e sferzanti, come il vento continuo, il panorama roccioso, le piogge devastanti, il mare spesso in rivolta. Poi ci sono gli attori, icone vere. Il maschio poi eroso dagli eventi è ancora Jean Gabin che torna a lavorare con il regista che più di altri lo porta verso l’umanizzazione, qui l’urlo “Yvonne!” al capezzale della moglie equivale al pianto in Gueule d’amour. La donna furiosa e ammaliatrice è la magnetica Michele Morgan. Ovvero la coppia corrosiva de Il porto delle nebbie. La moglie insoddisfatta e infelice ancora una volta la Madeleine Renaud di Lo strano signor Vittorio. Nel finale bellissimo quando il capitano Laurent ha perso tutto torna sulla sua nave e ne vediamo il primo piano ancora in mezzo alla tempesta ma non ci mostra più lo stesso uomo: “Non c’è in questa scena che il movimento crescendo di un dolore, il dolore universale, André ha perso tutti i suoi tratti distintivi” (Jean-Christophe Ferrari – VII). Non c’è compassione, empatia, sfruttamento del sentimento del dolore. Un film girato in mezzo alle difficoltà della guerra obbligando il regista ad utilizzare dei modellini per le sue tempeste grandiose, un film alla cui scrittura (tratto da un romanzo di Roger Vercel) hanno partecipato Jacques Prevert e André Cayatte, ma indubbiamente uno dei film più riusciti di Grémillon. Anche quest’opera suscitò sperticate lodi da parte di Vecchiali (V) che definisce Grémillon come “l’unico cineasta francese totalmente degno della sua professione”. E sul film: “Posso vederlo duecento volte, ad ogni proiezione, sono scelto, sorpreso, sconvolto, arricchito (…) Remorques è un film d’amore sull’Amore, profondo, violento, crudo. I sentimenti sono espressi frontalmente con, per sola deviazione, una poesia sarcastica che denuncia la sfortuna sfidandola (…) Mentre il Mare, l’Inferno e Catherine recalamano Gabin, la Morte reclama Madeleine Renaud. La coppia che ci è stata presentata come esemplare si vede trascinare verso queste rappresentazioni: Mare, Morte, Amore. Allitterazione sintomatica che porta in sé le proprie contraddizioni. Mare, sorgente di vita. Morte, faccia nascosta della Vita. Amore che supporta e genera la Vita… (…) Opposizione grandiosa tra il mito Gabin-Morgan, la Sirena e il Marinaio, e il quotidiano, quello che si incasina ma comprende tutto, quella che si annoia e ne muore (Ledoux e Renaud). (…) Immagini, suoni, musiche, arredi, movimenti di macchina, luci specifiche sequenza per sequenza, direzione d’attori al millimetro, con una sintesi perfetta e comunque vibratile di tutti questi elementi della regia, cosa si può domandare di più?”. “Il mare resta un protagonista maggiore del film, come quasi sempre con Grémillon. Più che un luogo drammatico, è l’espressione fisica – anche quando no appare – della continuità materiale del mondo reale, un argomento realista.” (IV). (voto 7,5) Product placement per Campari che svetta come pubblicità in un bar.

Stefano Barbacini

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