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CINEMA
12 Novembre 2023 - 20:43

DIARIO VISIVO

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Qualche documentario, Xavier Dolan, Re dell'ombra e un paio di Jancso
DIARIO VISIVO

Le spectre de Boko Haram (2023) è un documentario di Cyrielle Raingou che ha vinto il Tiger Award al festival di Rotterdam e lo “Oscar” africano come miglior documentario ed è anche stato presentato al Fescaaal 2023. Insomma un’opera apprezzata e importante tra etnografia e attualità. Infatti la regista ci mostra la vita quotidiana in un villaggio del Camerun in cui si cerca di vivere nella normalità nonostante ci si trovi in una zona, ai confini con la Nigeria, in cui scorrazzano i terroristi di Boko Haram. Il villaggio è circondato perennemente da soldati, la madri cercano di dimenticare gli orrori di mariti e parenti fatti saltare in aria da fanatici, i maestri cercano di insegnare a bambini sempre in bilico tra violenza e trauma. La regia della Raingou è molto semplice, lascia parlare gli abitanti con semplicità e il dolore non viene filmato ma trasuda da ogni racconto. (voto 6,5). L’Adidas ormai è acclarato essere il brand di vestiario più diffuso nel cosiddetto terzo mondo ma anche una bizzarra cuffia con la grossa scritta Camel appare in quello che non si pensa sia vero product placement.

Consigliato a Nocturno e massacrato su Imdb mi guardo su Netfix Re dell’ombra (2023) del francese Marc Fouchard. Nella banlieue vive l’afrofrancese Ousmane con sposato con due mogli e tre figli, uno avuto dalla prima, Ibrahim (interpretato dal rapper Kaaris), e due dalla seconda. Le strade dei due figli maschi crescendo divergono, il più anziano diventa una specie di boss del quartiere, l’altro a seguito di un incidente diventa cieco e fa il musicista. Alla morte del padre il maggiore prende in mano la situazione e “domina” la famiglia portandovi violenza e sospraffazione. Diventerà uno scontro fratricida in cui il minore cercherà di riprendere in mano la situazione anche grazie all’aiuto di una “strega” africana. Il continuo richiamo alle tradizioni della terra d’origine contrapposte alla violenza della banlieue dove gli immigrati vivono in un mondo in cui droga e violenza predominano sono l’interesse del film che per il resto è piuttosto deboluccio soprattutto nel suo sviluppo finale. (voto 6-). Varie marche di vestiario (le solite Nike e Adidas e altre) e un paio di auto (una Renault che è causa della cecità di uno dei protagonisti, un paio di Mercedes di proprietà dei boss delle due bande rivali) come product placement.

Sono dodici anni che non torno e ho deciso di farlo per annunciare loro la mia morte. Questo dichiara ad inizio film Louis il protagonista dell’ultimo grande film di Xavier Dolan. E’ solo la fine del mondo (2016) è infatti l’ultimo film in cui l’enfant prodige canadese del cinema riesce a far “quadrare i conti” con le sue tematiche ricorrenti (la madre amata e castrante, la famiglia, il ritorno a casa, il passato coi suoi ricordi, l’omosessualità) e con il suo stile particolare e personale. Dopo solo due film brutti (La mia vita con John F. Donovan) o appena sufficienti (Matthias & Maxime) e una minserie tv. Recuperate quindi questo film (ma anche i precedenti se non li avete visti) così potrete apprezzare la sua capacità di costruire poeticamente le sequenze utilizzano i primi piani, i ralenty, il montaggio e la musica con una sensibilità non comune. Ad esempio descrivo la scena in cui l’immagine sembra fermarsi sullo sguardo perso e distante dalla realtà del protagonista con la musica in crescendo fino all’esplosione in un botto che non è altro quello fatto dalla madre che apre gli scuri… un modo bellissimo per descrivere l’invasione della normalità e del reale sull’intimità individuale. Partecipa al film buona parte del sempre ottimo panorama attoriale francese: Gaspard Ulliel è Louis, Vincent Cassel il fratello più anziano con la moglie Marion Cotillard, Lea Seydoux la sorella più giovane e la “storica” Nathalie Baye la madre. In un film dove si fuma moltissimo e qualsiasi cosa, Lucky Strike è il product placement. (Voto 7,5)

The unknown known (2013) è una lunga intervista all’ex Segretario della difesa americana Donald Rumsfeld. Ha attraversato nella sua carriere al fianco di Nixon, Ford e i Bush, il Vietnam, l’11 settembre, le guerre all’Iraq, Guantanamo… su questi temi lo incalza Errol Morris che ne ha tratto uno dei suoi documentari d’inchiesta, tra frasi di realpolitik, contraddizioni e senza mai porsi problemi morali sui morti degli interventi americani. Il tutto è interessante come leggere un libro di storia recente con le parole di uno dei protagonisti ma cinematograficamente Morris ha fatto di meglio. Qui interrompe il fiume di parole di Rumsfeld e il suo primo piano con alcune foto e immagini di archivio ma niente più. Bastano le affermazioni di Rumsfeld a fare il documentario, non il cinema. (Voto 7 per l’intervista, 5,5 per l’interesse cinematografico)

Navigando per il web si può recuperare (purtroppo solo in ungherese) il film d’esordio di Miklos Jancso, A harangok Romaba mentek (Le campane sono andate a Roma) del 1958 girato un paio di anni dopo l’invasione sovietica in Ungheria e uno dei primi film della nuova onda del cinema ungherese. Di un’occupazione parla il film, ovvero di quella tedesca durante la seconda guerra mondiale e di come alcuni studenti si diano alla fuga per evitare l’arruolamento forzato nell’esercito mentre i partigiani cominciano la loro lotta per la liberazione. A parte alcune ottime trovate visive lo stile di Jancso è ancora acerbo (una voce fuori campo a commento, una trama che perde qualche pezzo come quello della ragazza partigiana non approfondito…) e non ha nulla a che fare con quello che lo ha reso famoso, gli infiniti piani sequenza dei suoi capolavori dei decenni successivi. (Voto 6)

Quando si parla di Miklos Jancso si citano principalmente i suoi capolavori come I disperati di Sandor, L’armata a cavallo, Silenzio e grido; ma in realtà nella sua lunga carriera il grande regista ungherese ha diretto una trentina di film. E’ così che mi è venuta voglia di recuperarne qualcuno che ricordavo male o che ancora non avevo visto. Venti lucenti (Fenyes Szelek) (1968) è il suo primo film a colori. Come i precedenti è costruito con lunghe carrellate e piani sequenza e si rifà ad un episodio storico, nel secondo dopoguerra un gruppo di giovani attivisti occupa un liceo religioso e inizia una disputa su religione e marxismo ma soprattutto una considerazione sul potere e le sue dinamiche anche all’interno di una rivoluzione che il potere combatte. Tanti canti rivoluzionari vengono eseguiti dagli studenti tra cui Bandiera rossa in italiano ed è evidente il parallelismo (anche perché gli abiti sono quelli degli anni Sessanta) con i moti del ’68 contemporanei al film che lo apparenta in qualche modo a quelli politici godardiani. (Voto 6,5)

STEFANO BARBACINI

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