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CINEMA
10 Settembre 2025 - 15:33

DIARIO VISIVO (Jean Gremillon 4)

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DIARIO VISIVO (Jean Gremillon 4)

Quando guardo un film di Grémillon mi immagino il regista che, prima di imbastire la storia melodrammatica di cui di solito trattano le sue opere (con uomini e donne che si amano, si odiano, si tradiscono, si lasciano andare a passioni assolute e poi magari si uccidono), prima ancora di mettere sullo schermo i dialoghi poetici e passionali di Pierre Laroche e Jacques Prevert, pensa principalmente a dove collocarli. In quale contesto paesaggistico, di solito ai limiti, e quali professioni, che riprende in modo documentaristico e dettagliato, di solito operai al lavoro, svolgono. “Fortemente architettonici, i piani grémilloniani tendono nello stesso movimento a cancellare le tracce del loro slancio intimo. Che il mondo del lavoro-il mondo del cinema, per dire il vero-sia raffigurato in Lumiére d’été dal cantiere di una diga non è un caso; tutti i piani di Grémillon hanno l’aspetto di una diga: come la muraglia di una roccaforte, contiene la possenza liquida di una sensibilità forte, di cui sentiamo in lontananza la sorda lamentela (…) La potenza architettonica dei piani gremilloniani è in misura delle tensioni interne che vi si esercitano” (*). Nel caso di Lumière d’été (1943) l’azione si svolge tra un hotel “di vetro” e un castello posti in mezzo al ruvido paesaggio di “pietre, polvere e sole”, sotto il Massiccio Centrale, nel Corrèze dove si sta costruendo la Diga de l’Aigle. Qui i protagonisti sono, la proprietaria dell’hotel, un ricco possidente che vive in un castello, una ragazza che tutti vorrebbero amare giunta con uno squinternato pittore ubriacone all’hotel e un giovane operaio della diga. Si vede come, mentre fa agire i tipi e ne scopre i legami (il ricco ha una storia da anni con la proprietaria dell’hotel ed è probabilmente un uxoricida; la ragazza ama il pittore ma non ne può più della sua follia; il ricco vuole conquistare la giovane assoldando il pittore per dipingere una stanza del castello; il giovane operaio si è innamorato della ragazza e soffre a vederla contesta da due pessimi elementi), sia principalmente interessato ad esplorare la geografia del luogo e a documentarci il duro lavoro dei costruttori tra mine da far esplodere, picconi e rocce da sgombrare, la discesa nelle viscere della terra. Questo arriva chiaramente allo spettatore dando sostanza e densità ad un racconto che in mano a registi dozzinali potrebbe finire nel melodramma sentimentale puro. La sequenza finale del film è emblematica, Grémillon utilizza al meglio le possibilità visive che il luogo gli offre (in precedenza si è anche concesso un’inquadratura avanguardistica inquadrando in prospettiva alcuni tubi di cemento all’interno dei quali nasce l’amore tra i due giovani). Infine la questione sociale che diventa evidente proprio per il contrasto dei luoghi: castello vs. cantiere con l’hotel da far da luogo di passaggio e transito di passioni. “Il contrasto è nei personaggi come nei luoghi: da una parte la Francia operaia, attiva e vòlta al futuro, dall’altra una borghesia pseudo-aristocratica e malata; poi il “vero” del documentario (…) contro il “falso” del castello: «La sceneggiatura di Prévert e Laroche», scrisse Sadoul «contrappone ancora una volta il bene e il male. Il bene è rappresentato da una diga in costruzione, i suoi ingegneri, i suoi operai. Il male è un castello e i suoi ospiti.»” (**) A differenza dei film precedenti, più corti e secchi nella narrazione, qui vi è un forte elemento di ironia grottesca a stemperare la fosca aria di tragedia incombente e a corollario delle scene romantiche. Vi sono infatti personaggi inseriti in modo caricaturale come l’inserviente dell’hotel, il vecchio ospite erudito e nemico della modernità (odia le auto e, soprattutto, la Tour Eiffel) che ha un affaire con un’anziana vedova, uno degli operai in costante caccia di un’aquila, lo stesso Claude Brasseur (che interpreta istrionicamente il pittore) che, durante una festa in maschera, interpreta Amleto in modo ironico e parodistico. Clou del film è proprio la festa in maschera al castello dove vi sono le rese dei conti dei rapporti instauratisi fino alla tragedia nel sottofinale dovuta ad una corsa in auto (festa e corse in auto sono i must non solo di Grémillon ma di molti altri registi francesi tra gli anni venti e gli anni quaranta). Ancora una volta stupefacente Madeleine Renaud nel solito ruolo della donna trascurata e tradita (e se è una costante presenza nei film del regista significa che la sua recitazione di qualità è per lui indispensabile). Più algido e ambiguo Paul Bernard nella parte del ricco e “granitico” nella sua bellezza Georges Marchal (un operaio un po’ improbabile). Senza infamia e senza lode Madeleine Robinson, la ragazza amata da tre uomini ma molto… normale (la parte era scritta per Michele Morgan e sarebbe stata altra cosa…). Sadoul vide nel film la stessa critica sociale e antinazista (“c’è del marcio in Danimarca”) che vi erano ne La regola del gioco di Renoir e si sa che Grémillon (ri)faceva cinema “contro” l’idea di spettacolo di Carné e Renoir per lui autori di talento ma “falsi”. “Criticare i film dei suoi colleghi realizzando altri film, ecco cosa è fecondo e corrisponde alla sua maniera d’essere: non sprecare parole in sterili dichiarazioni d’intenzione, ma agire, operare in senso compiuto. Questa è la concezione di Grémillon” (*) Stranamente il “fan” Vecchiali nella sua encineclopedie massacra il film come l’unico passo falso del regista con motivazioni solo in minima parte, a mio parere, calzanti. Anche i grandi hanno le loro idiosincrasie. (voto 7). Le Petit Journal l’unico accenno di possibile product placement.

Un decennio dopo la Falena d’argento di Katherine Hepburn, arriva la falena francese Therese Gauthier, da casalinga ad aviatrice, e la mette in scena Jean Grémillon in Il cielo è vostro (1944). Il film è la storia di un’ossessione, ma questa volta non è quella per una donna o un uomo, per la passione amorosa, è l’ossessione per il volo, per il raggiungimento di un traguardo, per il superamento di sé stessi. L’ossessione di una coppia: l’ex-pilota di guerra Pierre Guathier (Charles Vanel), riciclatosi come meccanico sia di auto che di velivoli, riprende gusto a volare contro la volontà della moglie Therese (Madeleine Renaud che fa il percorso inverso rispetto i ruoli dei film precedenti) la quale poi si appassiona e diventa ossessionata dal diventare un’eroina del volo. Per questo i due coniugi lasceranno il lungo fiume tranquillo della vita famigliare (con loro vivono anche la vecchia madre di lui e due figli, un’adolescente e il fratello bambino) per buttarsi in un’avventura che potrebbe anche essere mortale e distruttiva per la famiglia. Per questo sacrificano anche il futuro della figlia, promettente pianista, a cui egoisticamente impediscono di andare al conservatorio e addirittura le vendono il pianoforte per finanziare importanti modifiche al loro aereo. La dicotomia vita famigliare e sicurezza economica contro il futuro incerto ma libero, indipendente ed eccitante fanno sicuramente parte anche di altri film del regista. Qui però Grémillon (un po’ era così anche nel precedente) perde la secchezza e la precisione di racconto che lo contraddistinguono per mettere in scena un “filmone” all’americana in cui le vicende si prolungano quasi epicamente. Questo senza però non rimarcare caratteristiche tipiche del suo cinema: “racconta l’impurità di un sogno coi mezzi “impuri”, cioè feriali, del documentario – pochi primi piani, tendenza a riprendere da lontano per mantenere l’insieme, attenzione alle macchine e al loro funzionamento – riservando alla drammaturgia di finzione un particolare chiaroscuro (…)“ (**) Lo stesso Masoni vi vede anche un parallelo con la lotta partigiana: “Nel 1943 esce Il cielo è vostro (Le ciel est à vous). So bene che bisogna fermarsi, che attribuire alla coppia protagonista della storia una simbolica identità partigiana può essere una rozza forzatura. Questo non toglie che già il titolo, luminoso fra il fosco della guerra e dell’occupazione tedesca, impegni a sperare.” Citando poi Sadoul: “Ma attraverso questo ritratto di gente comune e del loro entusiasmo, Grémillon esaltò l’eroismo francese durante quei mesi del 1943-1944 nei quali i partigiani avevano intensificato le loro azioni fra i “maquis”…” (ix) Ma cosa ne pensa Vecchiali a cui non era piaciuto il film precedente di Grémillon? Le ciel est à vous ha tutt’altra recensione: “C’è in questo  film un miracolo permanente: l’equilibrio tra la complessità delle situazioni e la semplicità della regia. Jean Grémillon possiede quell’arte così rara di rispettare i personaggi, di accompagnarli con tenerezza nei loro peggiori eccessi. La passione, terreno d’avventura, che permette il superamento di sé, provoca nello stesso tempo delle lacerazioni: una passione si oppone sempre ad un’altra passione (…) Nessun orgoglio nella loro avanzata: solamente la speranza di veder concretizzato il loro sogno. L’analogica con la passione di Grémillon per il suo mestiere è evidente. Forse, senza troppo insistere su questo punto, sta per rivelarci il segreto della sua vita.” (V) (voto 6+). Energol nel garage del protagonista e la citazione per il Cinzano, le uniche possibili tracce di product placement.

Praticamente fermo per 5 anni nel periodo della fine della Seconda Guerra Mondiale in cui Grémillon ha girato un documentario e un corto, il regista torna al cinema con un gotico bretone. Pattes blanches (1949) inizia con l’arrivo di una donna forestiera in un paesino della Bretagna, proprio sulla costa frastagliata (luogo ormai abbiamo capito caro a Grémillon), dominato dal castello dove abita un nobile molto strano e solitario. Attacco tipico dei film di Dracula o comunque dei gotici ambientati nei paesi in cui vi è una minaccia oscura. Anche il personaggio del castellano Julien de Keriadec (Paul Bernard), detto pattes blanches per le sue lunghe ghette bianche, è il tipico personaggio che potrebbe esser stato interpretato da Bela Lugosi con i suoi misteri, la sua violenza sempre pronta ad esplodere, la sua lateralità. Per completare l’ambientazione gotica e i rimandi a questo tipo di cinema vi è anche l’elegante ma spettrale interno del castello, il personaggio di Mimì la bossu (la gobba) che rimanda a Leroux e Hugo, gli specchi da favola molto Cocteau e anche un’inquadratura onirica in cui Mimì (una Arlette Thomas praticamente al suo esordio, e che esordio!) sembra la “moglie di Frankenstein”. Ciò non toglie che la traccia melodrammatica tipica del regista non sia comunque preponderante, come tornano anche protagonisti i paesaggi brulli e psicologici delle zone “di confine”. Insomma il cinema di Grémillon che si contamina con il cinema di genere. Abbiamo come protagonista questa donna, una spudorata e sexy Suzy Delair che interpreta Odette, una serva portata al paese dal proprietario dell’albergo del luogo, il benestante quanto rozzo e ingenuo Jock (Fernand Ledoux) come gran donna, amante da esibire. La sensualità di questa “femmina” profumata e ben agghindata è tanta roba per gli abitanti del paese che non hanno praticamente mai visto donne così. Odette però non è innamorata di Jock da cui vuole solo mantenimento e regali, ma si annoia e si concede sia a De Keriadec, quasi per gioco e perché lo crede ricco, cosa che non è vera, che al fratellastro Maurice, un altro esordio attoriale clamoroso di un giovanissimo e irriconoscibile Michel Bouquet che recita “in maniera febbrile, come una specie di Antonin Artaud” (VII), da sempre reietto e con il dente avvelenato contro tutti perché considerato un bastardo dato che il vecchio De Keriadec lo aveva concepito con sua madre, un’inserviente del castello. Di Maurice però Odette si innamora e questo la “usa” per vendicarsi del fratello costringendola ad andare ancora a letto con lui per farlo innamorare e poi lasciarlo. Finirà in tragedia proprio la sera della grande festa per le nozze di Odette e Jock. Protagonista però in mezzo a questo malsano racconto di invidie, seduzioni, giochi sporchi, diventa Mimì, anima candida e sognatrice, che sa di essere deforme e per questo destinata all’infelicità (“essere felice mi fa paura”) che è l’elemento morale del film (lei si vorrebbe sacrificare per il nobile, l’unico che l’ha trattata come essere umano). L’interpretazione di Arlette Thomas è straordinaria: “con i suoi occhi neri come dei carboni ardenti e il suo musetto da topolino – quella che brucia in segreto, quella che brucia di devozione, senza condizioni” (VII). La storia dell’appartato e anticonformista De Keriadec che abbandona il motto famigliare “piuttosto morire che venir meno alla parola data” perché si lascia concupire da una donna dissoluta, potrebbe essere metafora della stessa arte di Grémillon per cui il suo cinema secco e appartato nelle ultime opere va verso l’estetica dei (da lui…) vituperati maestri del realismo magico e di Renoir (bisogna ricordare che Pattes blanches nasce come film di Jean Anouilh che doveva essere sceneggiatore e regista, poi realizzato da Grémillon). Per fortuna nostra, bisogna dire, perché Pattes blanches è un capolavoro. Visivamente probabilmente il migliore di Grémillon tra quelli sonori con quelle riprese cupe e ombrose, quelle passioni umane mal trattenute e mostrate con figure stupendamente delineate, con l’amore che esplode dentro rustici sporchi in rovina, con quegli interni che rimandano ai quadri dei pittori realisti francesi (Courbet, Daumier, Millet…), con inquadrature sempre preziose e studiate (cito nuovamente Cocteau), con ancora dentro la sua arte le “sperimentazioni degli anni 20 et 30, quelle di un’ubriachezza visionaria, di una ricerca. Per Grémillon come per Epstein, le schermo non è un laboratorio, ne uno specchio o una finestra, ma piuttosto una sorta di incrocio in cui intersecano vie interiori e mondo esteriore. Al di là dei loro <<anni folli>>, se le loro opere sono restate così <<pure>>, non è tanto per le loro invenzioni formali – che restano grandi – ma per il loro idealismo esacerbato, prima volteggiante poi irradiante, iridescente, in trattazione intensa con tutte le possibilità del fantastico, soprattutto per Epstein (ma Pattes blanches gli si avvicina), o al contrario, soprattutto per Grémillon, della realtà bruta” (X). “Ci sono dei film che giureremmo scritti con il sangue, girati come un incubo, vissuti a fior di perlle. Pattes blanches fa parte di questi. E sono rari. Quello che è ancor più raro, è che questa fornace non sia platealmente romantica. Padroneggiato perfettamente tanto sull’utilizzo dello spazio che nella direzione degli attori, l’opera riguarda meno la sofferenza che la solitudine. Sono tutti soli, amati o meno, asserviti o liberi. (…) Certo, alla base vi è un mostro sacro della drammaturgia ma è la messa in scena che dà l’impressione di un grande ballo infernale dove i personaggi ballano senza pensarci. Questo cliché classico del cinema francese, il dramma nella festa, Jean Grémillon lo rigenera, lo porta al suo parossismo in una sequenza indimenticabile”. (V) (Voto 7/8) Bieres Polaire e Martini, evidenti product placement all’interno del bar di Jock.

Con Maternità proibita, titolo italiano, che richiama Matarazzo e non per nulla, di L’etrange Madame X (1951), Grémillon costruisce un melodramma “pulito”, senza le deviazioni di genere (documentaristico, gotico, noir) che il regista ci aveva abituato ad intrecciare nei suoi film. Qui la dualità del film sta tutta tra la rappresentazione di due mondi, quello dei ricchi basato su luccichii di apparenza a coprire falsità di rapporti contrapposto a quello dei “poveri” ma sinceri, ma puri. Grémillon richiama Michèle Morgan ad interpretare Irene, una donna dalla doppia vita che appunto si divide tra i due opposti stati sociali (“in quale mondo vivi” le dirà l’amante una volta scoperta la sua “doppiezza”), sposata ad un anziano e ricco editore, di cui era segretaria, per motivi di comodo, ama però l’operaio Etienne (Henri Vidal) di un amore vero ma a lui racconta di essere la cameriera in casa del ricco, nascondendogli di esserne invece la moglie. Tutto si complica quando nasce una bambina concepita tra i due giovani e la tragedia che ne consegue. Finisce con una “festa mesta”, come canterebbero i Marlene Kuntz, a cui torna Irene dopo aver visto sfumare il suo vero amore: “andiamo a far finta di esistere”. Della precedente opera (a mio parere una delle sue migliori) Pattes blanches resta la figura “patetica” di Jeannette (sempre Arlette Thomas) speculare a quella di Mimì, una donna innamorata follemente di Etienne ma senza speranze e condannata all’infelicità. Il girato di Grèmillon si fa più raffinato, meno rozzo, l’amore è mostrato impudicamente sullo schermo al contrario di altre sue opere. Gli amanti sono meno ancorati al realismo: “La lucidità degli amanti si duplica nella loro capacità a dimenticare e a fondersi in qualcosa di più grande. Hanno la sensazione allo stesso tempo di essere soli al mondo e di appartenere a una comunità, quella degli amanti” (XI). La tragedia aleggia fin dall’inizio quando i due rimembrano il loro primo incontro in uno stadio ora totalmente vuoto, perché “Quello che dà forza al sentimento amoroso in Grémillon, non è la sua novità ma la sua novità mischiata all’apprensione della sua fine prossima. E niente indica di più la sua fine prossima, la sua rovina, che il ricordo della sua nascita”. (XI). Vecchiali nel suo commento al film se la prende con chi ha denigrato il film: “Grèmillon non imbroglia con il soggetto, non cerca la performance ne la dissimulazione. Resta ad altezza uomo. Non capisco l’ostracismo di cui il film è stato vittima. Troppa semplicità? Bisogna dunque, per essere credibili come registi, lavorare su grandi soggetti? E cos’è un grande soggetto? (…) Un compito d’artigiano, pulito, leale con la commissione (…) Un film che suona alto e forte, come un un orologio antico, regolato come si deve.” (V) (voto 6). Nei bar dei “poveri” spicca Martini mentre tra la borghesia di parla di Chez Maxim, product placement di… classe.

L’ultimo lungometraggio di Grémillon è del 1953, L’amore di una donna. Il regista morirà sei anni dopo, anni in cui si dedica al documentario, a soli 58 anni. Resteremo nel rammarico per il fatto che all’autore, uno dei più interessanti del cinema francese, sono state date troppo poche possibilità di esprimersi (“Con le sue assurde ‘regole del gioco’, la produzione condannò all’inattività Grémillon, che morì senza poter dirigere, in dieci anni, altri film all’infuori del commovente L’amour d’une femme”)(***). Quest’ultimo film lo vede ritornare nei suoi paesaggi preferiti, quelli marini con scogliere a picco, mareggiate, tempeste e vento. Luoghi piccoli e isolati nel nord della Francia, e quale può esserlo più della piccola isola bretone di Ouessant nel Finistere? Qui arriva la nuova dottoressa di paese a sostituire l’anziana che l’ha preceduta. Marie Prieur (Micheline Presle) sfugge da un rapporto finito male e decide di dedicarsi alla propria professione e al proprio destino, salvare vite umane. Presto però la ruvidezza degli abitanti, la solitudine del luogo e l’osticità dello stesso la portano a cercare la vicinanza di un operaio di costruzioni navali, di origini italiane, che si è dimostrato gentile con lei. Presto Marie si innamora, ricambiata, di André Lorenzi (Massimo Girotti) e, proprio quando tutto sembra andar bene e si comincia a parlare di matrimonio, tutto crolla (e Grémillon ci dona una splendida sequenza di “allontanamento” reale e metaforico tra le rovine di una costruzione) quando Lorenzi fa capire di non accettare una moglie a metà servizio, più dottoressa che casalinga. Grémillon riprende in parte l’argomentazione de Il cielo è vostro, ovvero l’autodeterminazione e l’indipendenza femminile ma, mentre in quel film a rimetterci era principalmente la figlia perché il marito l’assecondava, qui è il legame sentimentale che salta di fronte all’intransigenza dell’“italiano”. “Il femminismo è d’avanguardia, mettendo in evidenza in modo acuto una realtà ben precisa: la difficoltà per una donna di trovare il suo posto in un mondo fatto per/dagli uomini. La sua eroina sacrifica il suo amore al suo mestiere, alla fine persuasasi, ma senza osare confessarselo, che la coppia e il matrimonio tradizionale sono strutture sorpassate” (IV). Detto questo ritroviamo in questo film tutte le caratteristiche del cinema del regista, il lato pseudo-documentaristico (il cantiere navale, gli interventi medici) con l’attenzione alle professioni, l’ambientazione di cui abbiamo già detto, il melo sfumato nel non-mostrato e nel non-finalizzato, le caratterizzazioni dei personaggi secondari che fanno da specchio “morale” ai protagonisti (l’anziana maestra che preconizza la vita solitaria, sentimentalmente, che attende la dottoressa, e il suo commiato nella sequenza della sua morte è un altro pezzo pregiato del cinema gremilloniano). Tutto però senza l’eccezionalità dei suoi capolavori: “l’ultimo film di Grémillon è in sintonia con i suoi temi preferiti (…). Temi che però non trovano qui un’espressione convincente né personaggi vivi. Anche la brava M. Presle gira a vuoto.” (Morandini). “Non so se ho ragione o meno, ma mi sembra che un po’ più di secchezza avrebbe giovato di più nel finale: la sceneggiatura contempla qualche compiacimento nella lacerazione. E neppure Micheline Presle e Massimo Girotti paiono convincenti in quei momenti. Ma come non amare alla follia un film così puro, così pulito sulla natura, sui sentimenti, sullo iato che non manca mai di esistere tra il desiderio di servire (un po’ derisorio) e il desiderio tout court (un po’ invadente)(…) La problematica illustrata nel film è invecchiata male, però resta attuale e soprattutto la regia di Grémillon è d’una tale giustezza e d’una tale eleganza, andando al di là del reale senza sacrificarlo, là dove nasce la poesia” (V). (Voto 6+) Marche già note per il cinema francese del periodo come product placement come Pernod, Gauloises, Dubonnet più la rivista Arts et decors e il quotidiano Le Marin.

E per chiudere su questa analisi sul cinema di Grémillon lasciamo ancora “parlare” uno dei suoi più grandi estimatori, Paul Vecchiali: “Le sue regie, calme e serene, senza affettazione, stupiscono come un inno continuo alla vita, organizzano omaggi discreti ma costanti alla passione, descrivono piccole gioie un po’ ingenue, essenziali però, che procurano l’amicizia e i grandi sentimenti generati dall’antagonismo del dovere e delle aspirazioni personali.” e ancora: “L’emozione unica, insostituibile, che sentiamo in ciascun film di Grémillon. Egli ci ha lasciato a cinquantotto anni, nel pieno della maturità. Questa scomparsa, particolarmente ingiusta, due anni dopo André Masson et les quatre éléments (corto documentario ndr) in cui faceva l’elogio dei suoi fratelli artigiani, della loro generosità, della loro lucidità e della loro pazienza, prova quanto l’industria cinematografica possa essere criminale verso quei suoi servitori che privilegiano l’arte piuttosto che il commercio.” (V)

(*) Jean Grémillon ou la Poésie de l’absolu, Philippe Roger, Cahiers du cinema ottobre 2013, traduzione mia

(**) Jean Grémillon. Il diseguale, la ricerca, Tullio Masoni, Cineforum 581

(***) Georges Sadoul, Storia del cinema mondiale, Feltrinelli Economica, 1977, Traduzione Mariella Mammalella

(IV) Dictionnaire du cinema, Jean-Loup Passek, Larousse, traduzione mia                                                                           

(V) Paul Vecchiali, L’encineclopedie, traduzione mia

(VI) Axelle Ropert, La loi des trois coups, Cahiers du cinema ottobre 2013, trad. mia.

(VII) Stephane Delorme, Passion Grémillon, Cahiers du cinema ottobre 2013, trad. mia.

(VIII) Un capolavoro di Jean Grémillon inedito in Italia, Roberto Chiesi, Cineforum 581

(IX) Georges Sadoul, Grémillon e Becher – Amore per il cinema, Bianco e Nero n. 1-2, gennaio/febbraio 1960

(X) Florent Guézengar, Chanter dans la tempete, Cahiers du cinema ottobre 2013, trad. mia.

(XI) Nicolas Azalbert, Seuls sur terre, Cahiers du cinema ottobre 2013, trad. mia.

Stefano Barbacini

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