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CINEMA
9 Agosto 2025 - 18:34

DIARIO VISIVO (Ingmar Bergman 11)

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Fanny e Alexander
DIARIO VISIVO (Ingmar Bergman 11)

Nel 1982 Bergman mette tutto sé stesso (ricordi, esperienze, tipologie di persone osservate, borghesia svedese e religione protestante, teatro, amore per il cinema dei primordi, magia, storie inventate) in uno dei suoi capolavori e summa della sua carriera: Fanny e Alexander. Concepito sia per il grande schermo con una durata di 3 ore e come sceneggiato in 5 puntate di 5 ore e quaranta, in Italia solitamente si è vista la versione cinematografica e poco quella estesa per la tv, ma al momento su youtube, con sottotitoli in italiano, si trova quella televisiva in 5 episodi in una bella versione (se ne era già vista una versione in 4 puntate su Rai 3 ma per chi l’avesse persa lì allora vale la pena recuperarla: è un’esperienza). Bergman disse a Olivier Assayas e Sig Bjorkman in Conversazione con Ingmar Bergman (Lindau 1994): “Dimentichi la versione di tre ore! La trovo terrificante! Ma era l’unico modo di fare Fanny e Alexander… L’unico… Il vero Fanny e Alexander dura oltre cinque ore, cinque ore e mezza. Non è fatto per essere visto un’ora alla settimana, poi un’altra ora e così via. Il film dev’essere visto in una sola volta con un’interruzione per la colazione o la cena. E ovviamente senza i titoli di testa della serie televisiva”.

“Una sorta di geniale ripresa dei principali motivi che nutrono l’opera del cineasta, ma spinta all’estremo, come mai prima di allora. Bergman concede semplicemente (e finalmente) a sé stesso non solo di celebrare la vita (…) ma anche di farlo, per così dire, a viso aperto.” (*)

Siamo agli inizi dell’800 nella borghesissima famiglia Ekdahl a cui capo vi è un’anziana ex-attrice di teatro, Helena (Gunn Wallgren) che ha riunito tutta la famiglia per la cena della vigilia di Natale. Ne fanno parte i tre figli con le rispettive mogli e i nipotini, tra cui i bambini Fanny e Alexander. Il primo episodio della versione televisiva illustra la famiglia tra ironia grottesca e umana solidarietà per i difetti dei personaggi. I tre figli sono Oscar (Allan Edwall), padre di Fanny e Alexander (Pernilla Alwin e Bertil Guve), a capo di una compagnia di teatro, che è praticamente una seconda famiglia, in cui la primattrice è la bella moglie Emilie (Ewa Froling); Gustav Adolf, amministratore del teatro, donnaiolo che ha come amante fissa la servetta zoppa Maj (Pernilla Ostergren), amante riconosciuta e trattata come una figlia dalla comprensiva moglie Alma (Mona Malm), donna “abbondante” sia fisicamente che nelle manifestazioni di allegria e sesso; Carl (Borje Ahlstedt), uomo fallito e perennemente depresso in preda a frequenti scatti d’ira contro la succube ed innamorata e non corrisposta moglie tedesca Lydia (Christina Schollin). Questo ritratto di famiglia teatrale e carnascialesco termina con la fuoriuscita in slitta verso la Messa di Natale e da solo potrebbe essere un film a sé stante di un’ora e mezza di altissima qualità.

La scena iniziale che vede protagonista Alexander (il bambino davanti ad un teatrino gioca con delle figure che vi posiziona dentro, poi si aggira per la vasta casa buia e vuota alla ricerca dei parenti, si nasconde nel letto della nonna, recita un pezzo teatrale per gioco, apre la gabbia in cui si trova un topo, guarda dalla finestra gelata il paesaggio invernale e l’arrivo di un carretto trainato da un cavallo, si nasconde sotto un tavolo, osserva un orologio con carillon e figurine che si muovono e il lampadario di vetro luccicante, si immagina una statua che si muove…), leggendo le autobiografie di Bergman, sa assolutamente di autobiografico, il regista mette in scena uno squarcio della sua infanzia (lo farà anche successivamente, ad esempio quando si inventa la storia raccontata a scuola di esser stato venduto ad un circo…).

La seconda parte si concentra sulla morte del padre Oscar e sulla rappresentazione dell’Amleto di Shakespeare eventi che diventeranno rispettivamente spartiacque e filo conduttore della successiva vita del bambino a cui il fantasma del padre apparirà spesso.

La terza parte ci fa entrare in un film gotico, di paure e fantasmi, quando la madre rimasta vedova, Emilie, decide di sposare il vescovo Vergerus (Jan Malmsjo). Il nome è una garanzia di malvagità e di doppiezza nei film di Bergman ed infatti, dopo il matrimonio, Emilie e i due figli sono costretti ad andare ad abitare nell’austera e fredda dimora vescovile (loro abituati alla calda e grande casa borghese di nonna Helena) dove incontrano la famiglia altrettanto rigorosa e insensibile, piena di regole assurde e ristrettezze, del vescovo (in contrasto alla allegra, festosa e affettuosa, seppur sbrindellata, famiglia Ekdahl). Dopo un anno la situazione precipita, Emilie chiede il divorzio ma è ricattata dal vescovo che minaccia di toglierle i bambini.

Nella quarta e nella quinta parte, con Emilie segregata, incinta di Vergerus, e i bambini maltrattati e puniti duramente per piccolezze, si consuma una delle sequenze più belle del film, quella del rapimento dei bambini da parte di un antiquario ebreo (Erland Josephson), personaggio molto vicino a nonna Helena. La famiglia Ekdahl non ci sta a lasciare Emilie e i bambini in mano al “diavolo in persona”. Il film celebra la magia del cinema e dell’inafferrabile inscenando fantasmi, marionette, miracoli e un sensitivo “pericoloso” che si trova ingabbiato in una stanza, è il figlio efebico dell’ebreo (interpretato da una donna) che ha poteri extrasensoriali e scatenerà l’incendio che ucciderà il malvagio Vergerus. La famiglia si riunisce nuovamente intorno ad un enorme tavolo a casa di Helena Ekdahl, due bambine sono appena nate, la terza figlia di Emilie e la figlia della servetta Maj e di Gustav Adolf (con la benedizione della moglie Alma).

Le sequenze da ricordare sono tantissime, oltre a quella del rapimento, quelle collettive dei pranzi e cene, l’austerità glaciale del subdolo Vergerus, la disperazione di Emilie nella richiesta di aiuto a Helena, la notte tra gli oggetti di antiquariato e le marionette dell’ebreo… Ma è il complesso dell’opera che è qualcosa di unico tra autobiografia, rimandi al cinema precedente bergmaniano, incroci con teatro e cinema di genere. “Un arazzo, un’immensa tappezzeria dove ognuno può scegliere cosa vuole vedere” dirà Bergman del film. Sven Nykvist dà il suo meglio con l’utilizzo del colore come mai aveva fatto (a parte nel capolavoro assoluto Sussurri e grida) e gli attori, tutti collaboratori teatrali di Bergman, sono tutti incredibili con nota di merito ad una delle più grandi attrici che il cinema abbia mai avuto, Harriet Andersson, qui trasformatasi in una serva di Vergerus, brutta, spia e cattiva, Iago al femminile.

“Un capolavoro con connotazione fortemente autobiografica (…) che si presenta come una summa della poetica dell’autore e come una ricca ricapitolazione della sua predicazione laica, dei suoi dubbi, delle sue convinzioni (…). Alexander è, naturalmente, Ingmar Bergman. Nonna Helena è l’amata nonna di Bergman. La casa è proprio quella casa di Uppsala, sulla silenziosa Tradgardsgatan, a due passi dalla Cattedrale che ogni tanto faceva sentire i rintocchi delle campane, cui rispondevano, più fiochi, quelli della chiesa di Gunilla (…) Il bieco e ipocrita pastore Vergerus (…) è il vero padre di Bergman.” (**)

“Congedo e testamento di Bergman, uomo di cinema, è una dichiarazione d’amore alla vita e, come la vita, ha molte facce: commedia, dramma, pochade, tragedia, alternando riti famigliari (lo splendido capitolo iniziale), strazianti liti coniugali alla Strindberg, cupi conflitti di tetraggine luterana che rimandano a Dreyer, colpi di scena da romanzo d’appendice, quadretti idillici, intermezzi di allegra sensualità, impennate fantastiche, magie, trucchi, morti che ritornano” (Morandini, Il Morandini 2011)

Per finire due visioni opposte della parte più irrealistica, di sogno cinematografico, dei fantasmi e delle magie. Da una parte Grazzini (Cinema ’83, Universale Laterza) che già aveva definito che il film “è di un fascino supremo, e che sia espresso con un linguaggio il quale ha davvero i segni della grandezza è detto dal fatto che, nonostante le dimensioni e la pregnanza simbolica, lo si segue tutto con appassionata partecipazione”, definisce quella parte di film “occorrerebbero colonne per sottolineare l’emergere dell’arcano, la dovizia delle prospettive psicologiche, l’eleganza formale delle immagini. Immedesimandoci in Fanny, che ha seguito con lo sguardo Alexander, possiamo soltanto dir grazie ad un maestro che ci ricorda le radici poetiche delle bugie, i doni dell’arte”. Dall’altra Alberto Moravia (E Ingmar perde la bussola, articolo su L’espresso 1983): “a partire dal momento in cui la madre di Alexander e di Fanny (…) sposa il sinistro vescovo Vergerus, Bergman non guarda più al mondo direttamente e in proprio bensì attraverso gli occhi attoniti, mitizzanti e incomprensivi di Alexander; e allora tutto viene stravolto appunto dalla incapacità infantile a ordinare razionalmente il reale. Questo tentativo di immedesimarsi nell’immaginazione e nella sensibilità infantile (…) non può dirsi riuscito (…) Fatto sta che il film a questo punto diventa non già fantastico ma incredibile. Non crediamo che il vescovo, figura tutta letteraria, sia un tale sadico; non crediamo che il robivecchi ebreo amante della nonna salvi i due fanciulli dalle grinfie del patrigno, portandoli via chiusi in una cassapanca, non crediamo che Vergerus muoia bruciato.” Naturalmente io, e quasi tutta la critica e i cinefili, la pensiamo come Grazzini (forse che ognuno debba fare il suo mestiere?) e a parziale scusante della “miopia” cinematografica del famoso scrittore possiamo dire che la versione da lui visionata probabilmente è stata quella di 3 ore. (Voto 9)

(*) Jacques Mandelbaum, Maestri del Cinema: Ingmar Bergman, Cahiers du Cinema

(**) Sergio Trasatti, Ingmar Bergman, Il Castoro

Stefano Barbacini

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