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CINEMA
7 Dicembre 2025 - 20:56

DIARIO VISIVO (Recuperi recenti dal web)

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Mani nude; L'amore che non muore
DIARIO VISIVO (Recuperi recenti dal web)

Con curiosità ho visto su Paramount+ il film Mani nude (2024) di Mauro Mancini, un regista che con la sua opera prima Non odiare aveva già dimostrato di interessarsi ad argomenti tosti e al limite. Inoltre la sceneggiatura è tratta da un romanzo di quella Paola Barbato che tanto ha dato, come sceneggiatrice di Dylan Dog e come scrittrice, all’indagine psicologica di menti deviate, sofferenti e deliranti. Positiva anche la conferma come coprotagonista di Alessandro Gassmann (protagonista dell’esordio di Mancini), un altro che non ha mai avuto problemi ad interessarsi come interprete e autore a temi scomodi e personaggi ai margini. E infatti tutta la prima parte del film, che riproduce un mondo sommerso di lotte a mani nude fino all’ultimo sangue, con uomini tenuti in cattività per combattere e far guadagnare chi li comanda (una specie di nuovi gladiatori del XXI secolo), è bella tosta e ricorda il Fight club fincheriano. Nel procedere, però, notiamo che qualcosa non funziona. Intanto l’interprete principale, Francesco Gheghi ci sembra decisamente fuori ruolo (non che non sia bravo, ma un ragazzino pelle e ossa neanche tanto grande che vince e uccide energumeni forzuti… beh…) e poi, al momento in cui ci dovrebbe essere una svolta drammatica e senza speranza nel finale, questa proprio non ci sta, soprattutto dopo che abbiamo visto il ragazzino fragilmente innamorato e il rapporto “bestiale” Gassmann-Gheghi diventato quello di padre e figlio che mangiano in armonia in cucina… Peccato perché Mancini gira bene con modernità cercando soluzioni interessanti negli ambienti claustrofobici e bui con inquadrature sbilenche e dal basso e con una fotografia contrastata con colori saturi. Teniamolo d’occhio e speriamo abbia più coraggio in futuro (coraggio che la Barbato nel romanzo ha avuto). (voto 6-)

Conosciuto più per le sue interpretazioni da attore, Gilles Lellouche è anche regista ed è giunto al suo quarto lungometraggio (più un episodio del non certo memorabile Gli infedeli del 2012). Il suo ultimo film, l’innocua commedia 7 uomini a mollo (2018) non poteva certo far pensare a questo fiammeggiante, eccessivo crime-romance che ha avuto un grande successo in Francia (candidato anche a 13 Cesar), L’amore che non muore (2024). Una “brava” ragazza, Jackie, che vive con il padre dopo la traumatica morte della madre in un incidente stradale, si innamora di un piccolo teppista che esce da una famiglia proletaria con un padre più impegnato a portare a casa i soldi per la sopravvivenza, facendo un lavoro duro e privo di soddisfazioni, che non a dare un supporto educativo al figlio. Il ragazzo dal nome insolito, Clotaire, finisce nelle spire della criminalità al soldo di Benoit Poelvoorde, che abbandona i suoi soliti ruoli da commedia per interpretare un improbabile boss. Finirà in galera per coprire un omicidio commesso dal figlio del boss e verrà ingannato dall’avvocato della famiglia criminale che gli fa prendere 12 anni al posto del vero colpevole. Quando esce dalla prigione ha due obbiettivi, vendicarsi e tornare dall’amata Jackie che non ha mai dimenticato ma che ora è sposata ad un altro… Lellouche racconta la storia senza ritegno, tutto viene ammantato da colori iperrealistici, comprese le brutte fabbriche di cui è costellata la città del nord della Francia, ai confini con il Belgio. Fa “poesia” con il colore delle pozzanghere inquinate, con l’eclissi di sole e il suo ricordo, con i campi al tramonto. La prima parte sembra un Tempo delle mele girato con il senso dell’estetica glamour sparata di Beineix, Kounen o Besson. In ogni immagine, in ogni movimento di macchina cerca di stupire lo spettatore che, abbastanza presto, comincia a scoprire il gioco artefatto e a l’archietettura kitsch più che autoriale. Un modo di far cinema, anche nostalgico, che evidentemente ha fatto breccia nonostante tutto e, in effetti, c’è il godimento dell’eccesso, del trash colorato, dello sfolgorio attrattivo. (voto 6) La prima sequenza vede una fila di Mercedes recarsi ad un incontro con un’altra banda ed è il primo product placement del film in cui vediamo anche Fila, Nokia, Technics e JVC (marche vintage visto che siamo negli anni 80), Nike, Cherokee.

STEFANO BARBACINI

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