Sulla meritoria Youtube potete trovare quel che rimane di un capolavoro del muto, Gunnar Hedes Saga aka Il vecchio castello (1923) di uno dei due grandi registi del cinema svedese dei primi anni del secolo (l’altro naturalmente è Victor Sjostrom), Mauritz Stiller. “Stiller è sensibile, raffinato, influenzabile, quasi femmineo, ma raggiunge spesso una poesia spiccata e profonda, sostenuta da un perfetto senso plastico” così lo presenta Georges Sadoul nella sua Storia del cinema mondiale (in Italia per Feltrinelli Economica, Trad. Mariella Mammalella). Tutto ciò lo ritroviamo nei suoi capolavori tra cui questo Il vecchio castello. Nonostante rimangano solo 48 dei 100 minuti originali, la potenza visiva e le scene più intime e spettacolari sono rimaste. Gunnar Hede è un giovane sognatore, appassionato del suono del violino come suo nonno che resta nella sua mente come un esempio da replicare, mentre la madre lo vorrebbe più coerente con la sua appartenenza alla borghesia (“tuo nonno era solo un contadino”). L’incontro con una dolce e angelica ragazza Ingrid (Mary Johnson che replica gli atteggiamenti di raggiante timidezza di Mary Pickford), figlia di due saltimbanchi, lo spinge ad andarsene da casa e seguire le orme dell’avo, ovvero diventare un allevatore di renne. Stiller si immerge nella natura, nella neve, nella tormenta (come già nell’ancor più compiuto Il tesoro di Arne tratto anch’esso da un romanzo di Selma Lagerloff) in modo documentaristico e spettacolare al tempo stesso. Il branco di renne che si sposta, il protagonista trascinato da uno degli animali nel ghiaccio, scene altamente impressionanti e piene di suspence che ricordano l’Agonia sui ghiacci di Griffith. Poi il delirio della mente di Gunnar che resta psicologicamente offeso dalla tragica avventura e vede animali fantastici e scambia pietre per denaro e non riconosce la madre e la ragazza, mentre Ingrid in una sorta di unione psichica a distanza vede l’apparizione della vecchia Signora: “Una parete si squarcia e, in un bianco paesaggio di abeti piegati sotto il peso della neve, avanza una carrozza tirata da orsi bruni che reca ‘la Signora del Dolore’, una vecchia orribile e beffarda, bizzarramente avvolta in veli neri e fittamente drappeggiati. La vecchia solleva la coperta e mostra il suo prigioniero in catene – il protagonista perdutosi nella neve e impazzito – quindi, scivolando lungo il letto, scompare nella notte e nel mondo dei sogni” (id.) Mentre le idee e le visioni si mischiano tra loro nelle permeabili opere degli autori del periodo, vi troviamo sicuramente un soggetto che poteva benissimo essere presente nel Carretto fantasma di Sjostrom (per altro anche questo tratto da un romanzo della Lagerloff) e quegli squarci onirici nel cinema espressionista. (voto 7)
Leggendo un mini-dossier sul cinema greco su FilmTv n. 6 anno 23 (2015) con breve escursus sulla storia del cinema greco e dei suoi film cardine, recupero, in copia non molto buona in realtà, Daphnis e Chloe (1931) un film ancora muto (nonostante ormai il sonoro fosse attualità in altre nazioni) di Orestis Laskos, citato come “film che si distingue per senso plastico del quadro e cura fotografica” nell’ambito del cinema greco tra le due guerre “in cui ricorrono film di stampo similamatoriale, che mettono in scena pièce teatrali e storie popolari”. La storia del film di Laskos viene presentata in didascalia come un “romanzo bucolico” ed è una libera interpretazione de Gli amori pastorali di Daphnis e Chloe di Longo Sofista, probabilmente del III secolo d.C. (Lo stesso testo ha ispirato Jean-Jacques Rousseau per la scrittura di un romanzo incompiuto dallo stesso titolo e un balletto con musiche di Ravel). Daphnis e Chloe sono due pastori che vivono in un villaggio sull’isola di Lesbo che si innamorano l’uno dell’altra. Il primo scopre di essere il figlio di un nobile del luogo. Daphnis era stato abbandonato infante in un bosco e sopravvissuto bevendo il latte di una pecora appartenuta all’attuale padre putativo del ragazzo. Le insospettate origini nobili, però, diventano un problema perché il padre vero, finalmente riconosciutolo, non dà il permesso al ragazzo di sposare la figlia di un pastore, ovvero l’amata Chloe, per differenza di classe. La madre di Chloe, però, rivelerà che anche la ragazza è stata trovata da bambina in un bosco mentre beveva latte da una pecora e anche lei ha origini nobili. Ora i due possono felicemente sposarsi… Al di là della storiella il film ha di positivo alcuni punti che riguardano l’impostazione grafica del film. Il connubio uomo-natura (corpi maschili e femminili, seminudi o anche nudi che si stagliano su rocce o in mezzo alla vegetazione), la sensualità abbastanza spinta (oltre al bagno nudo di Chloe e la sua evidente eccitazione davanti al corpo adamitico di Daphnis, abbiamo anche una scena in cui il ragazzo toglie una cavalletta dal seno di lei con evidente partecipazione erotica), i primi piani debitori del cinema dei grandi autori degli anni Venti del Novecento. Vi è anche una parentesi divertente e insolita per i tempi, in cui una donna selvaggia ed attraente dei boschi si presenta a Daphnis dicendogli che le ninfe l’hanno mandata per insegnargli ciò che i due ragazzi, ancora vergini, non sanno, ovvero “i giochi dell’amore” spiegando poi che “se tu non mi vuoi va bene lo stesso…” ma lui vuole, eccome se vuole… (voto 6)
Quando sento dire che il cinema muto è noioso e non adatto ai tempi e poi mi rivedo il Casanova (1927) di Aleksandr Volkov mi domando se, con un po’ più di voglia di scoprire e di guardare con attenzione, questi detrattori possano davvero trovare noioso un film pieno di seduzione erotica, avventure da feuilleton, avvenimenti storici, ironia, mascherate, tradimenti, fughe alla Douglas Fairbanks, attori e attrici iconici, vivaci scontri all’arma bianca, ambientazioni esotiche come la Russia coperta di neve, barocche ed eleganti come gli interni dei palazzi imperiali, folli e festose come il Carnevale di Venezia! Il film è stato prodotto in Francia all’interno della comunità degli artisti russi in fuga dalla rivoluzione di cui Aleksandr Volkov, l’assistente alla regia Anatole Litvak (penso non ci sia bisogno di presentarlo visto il successo avuto poi a Hollywood) e il protagonista assoluto Ivan Mosjukine facevano parte. Il film narra di alcune vicende riportate da Casanova nelle sue memorie, la sua fuga da Venezia dopo esser stato accusato di stregoneria da un marito cornificato verso l’Austria, poi il suo arrivo alla corte di Pietro III e della consorte Caterina (dopo aver rubato un passaporto ed essersi fatto passare per il modista dell’imperatrice) proprio nel momento in cui stava maturando la ribellione della guardia imperiale a favore di Caterina II che prenderà il potere facendo incarcerare Pietro. L’imperatrice si invaghisce di Casanova che, però, segue un’altra bellezza, quella della veneziana Duchessa Maria Mari invitata a corte in quello stesso momento. Con lei fuggirà inseguito dalle guardie imperiali. Costretto a nascondersi non si arrende e torna a Venezia per trovare la donna dove, riconosciuto durante il Carnevale, per non essere catturato, uccide un nobile. Sarà condannato a morte ma riuscirà a fuggire e a partire per altri lidi lasciando dietro di sé donne con il cuore distrutto… Viva la libertà! Viva Venezia! Viva la gioia di vivere! Come non ammirare questo film (che si può trovare in una versione completa di 2 ore e 39 minuti su Youtube in bellissima copia con viraggi di diversi colori e un pezzo di una ventina di minuti, durante il Carnevale, addirittura splendidamente dipinto a mano, una bellezza vintage che è arte pura) con le inquadrature plasticamente organizzate di Volkov (vedere gli allestimenti delle cene e dei pranzi e le due sequenze durante il Carnevale) e la meraviglia delle inquadrature di volti e corpi. Si perché di questo si tratta, un film in cui si esaltano il volto penetrante e gli occhi tra il triste alla Pierrot e il seducente di Mosjukine (un vero divo del tempo durato poco, fino all’avvento del sonoro, e morto in miseria a Parigi), quello dalla bellezza scultorea e dai grandi occhi, impressionanti in un primo piano quando si sente tradita da Casanova, della Maria Mari di Diana Karenne (una diva meno celebrata di altre del suo tempo perché i suoi film sono andati quasi tutti perduti, ma una assoluta protagonista del muto italiano, lei rifugiata polacca, prima di raggiungere gli artisti russi a Parigi), ma soprattutto resterà impressa la sensualità di Rina De Liguorio in una particina secondaria di una ballerina che ammanta di erotismo e di nudità (siamo nel 1927…) l’inizio del film (la De Liguorio che ha preso questo cognome dopo aver sposato il regista Vladimiro De Liguorio, era una pianista di fama che, innamoratasi del cinema, si specializzò in ruoli sensuali raggiungendo massima fama con l’interpretazione di Messalina fino ad arrivare a chiedere di essere sepolta, dopo la sua morte, con la tunica utilizzata nel film da lei conservata). Insomma, non siate scettici, guardatelo e riscoprite i gioielli del muto. (voto 7+)