Facebook Twitter Canale Youtube RSS
CINEMA
4 Maggio 2025 - 09:16

DIARIO FAR EAST FILM FESTIVAL 2025 (6)

 Print Mail
Clash; The last dance; The uniform; Yokai monsters; Inhuman kiss: the last breath
DIARIO FAR EAST FILM FESTIVAL 2025 (6)

Perché i film sportivi sono (con rare eccezioni) praticamente tutti uguali? Siano storie vere o fittizie, siano americane o di altre nazioni, vi sono sempre un gruppo di improbabili atleti che si riuniscono per mettere assieme un’armata Brancaleone, una squadra che viene all’inizio massacrata e bullizzata poi, con l’aiuto di un allenatore solitamente vecchio e/o fallito che però è supercompetente e umanamente senza pari, migliora rapidamente fino ad andare a battere la squadra più forte del campionato sempre nel solito modo: dopo essere andata sotto di tantissimi punti nel primo tempo, nella pausa scoppia la retorica dell’amicizia e dell’orgoglio negli spogliatoi, e nel ritorno in campo eroica rimonta con vittoria all’ultimo secondo. Durante questi avvenimenti poi vengono presentati i problemi famigliari e personali dei protagonisti, alcuni di loro si perdono per infortuni o altro, sembra che la squadra debba disfarsi poi tutto viene superato con famigliari, amici e nemici che tifano per loro in un volemose bene generale. Tutti uguali. E a questo non si sottrae neppure Clash, film cinese presente al Far East Film Festival 2025 che racconta la storia (vera ma naturalmente mooolto romanzata) di un gruppo di sfigati che vuol vincere il campionato di football americano in Cina! Infatti da poco una lega amatoriale con un campionato nazionale di questo sport tutto americano esiste anche in Cina. Seppur nel film tutto sia scontato e nulla arrivi minimamente a sorprendere lo spettatore, comunque, un po’ per la voglia di competere che tutti abbiamo, un po’ perché i protagonisti realizzano sogni che qualsiasi ragazzo ha avuto, risulta comunque abbastanza potabile. Almeno fino a che no si esagera con l’enfasi e la retorica che mi fa dire che, con buona pace di Trump, i cinesi oltre al football abbiano importato anche la piattezza di tanto cinema hollywoodiano. (Voto 5)

Come ho già scritto in precedenza, una retrospettiva sul folklore asiatico intestata principalmente agli Yokai giapponesi, si è vista al cinema Visionario all’interno del Far East Film Festival 2025. Ma chi sono gli Yokai. Ce lo spiegano lo studioso Komatsu Kazuhiko (di cui potete procurarvi il libro An introduction to yokai culture: Monsters, Ghosts, and Outsiders in Japanese History) e Mark Schilling (dal bel catalogo curato da Giorgio Placereani per il FEFF27): “Yokai è un termine ambiguo che identifica creature, presenze o fenomeni che potrebbero essere descritti come misteriosi o inquietanti. E gli yokai stessi possono essere difficili da definire in qualche maniera, dal momento che i loro nomi, caratteristiche e storie originali sono diversi in ogni regione giapponese. Hanno tradizioni antichissime, medioevali e anche precedenti. Chi visivamente ha raffigurato come potrebbero essere gli Yokai è stato principalmente il disegnatore di manga Mizuki Shigeru (al cui lavoro il festival in collaborazione con il museo di arte moderna di Udine, Casa Cavazzini, ha dedicato una mostra). Poi il cinema con, tra gli altrei, i tre film presenti in rassegna Yokai Monsters: Spook Warfare (Kuroda Yoshiyuki, 1968; The great Yokai War (Miike Takashi, 2005) e The great Yokai war: Guardians (Miike Takashi, 2021) ne ha dato la versione forse definitiva. Qui parliamo del primo del 1968, parte di una trilogia voluta dagli studi Daei per mettere assieme il mondo Yokai dei manga e quello kaniju (Gamera, Godzilla e co.). Il film nonostante la presenza di mostri buoni e cattivi non è però un film horror, è un divertente film per “grandi e piccini”. L’inizio ricorda quelli dei film di mostri americani anni ’50 o il Godzilla di Honda con un mostro demoniaco risvegliato dopo millenni durante gli scavi archeologici nel sito dove era la storica città sumera di Ur. Il grosso bestione, che può ingrandirsi fino a dimensioni gigantesche, riesce anche a “vampirizzare” i corpi degli umani trasformandoli in persone cattive. Nel villaggio in cui si stabilizza entra in contrasto con gli yokai locali (bellissima la loro rappresentazione con varie tecniche, dagli attori con costumi, ai pupazzi mossi da fili, alle sovraimpressioni) che si coalizzano e riescono a sconfiggere il nemico e a riconquistare il loro territorio in cui convivono pacificamente con gli umani. (voto 5/6)

Assieme al mongolo Silent city driver il mio film preferito a questa edizione del Far East Film Festival è The last dance produzione di Hong Kong diretta da Anselm Chan. Un film che riesce ad essere ironico, drammatico, dolce e saggio allo stesso tempo, senza mai scadere nel patetico, nel didascalico, nell’ovvio. Nel periodo di crisi dovuto al covid, un wedding planner di nome Dominic viene contattato dal socio di un’impresa di riti funebri per vendergli la sua quota. Diventerà così comproprietario dell’impresa insieme al dispotico e scettico Master Man, il prete taoista che si cura della parte sacra dei funerali. Dominic invece si occupa di marketing, di soddisfare le esigenze dei clienti e di addobbare i defunti. I due entreranno in contrasto perché vedono l’attività da due lati opposti. Mentre Master Man dà solo importanza alla sacralità dei riti mortuari e alla tradizione taoista, perdendo di vista le esigenze di chi gli sta intorno, cioè i propri figli (un maschio costretto a seguire la stessa strada del padre senza convinzione e una femmina invece considerata sporca ed inutile in quanto donna), Dominic delle ritualità e delle tradizioni si interessa poco: “a me interessano i vivi, quelli che restano, perché vivere può essere un inferno”. Il regista si prende il suo tempo (e la extended version di 140 minuti presentata al festival ci sembra imprescindibile) per mettere in evidenza le personalità di tutti i protagonisti. Le frustrazioni e le aspirazioni dei due figli di Man, i rapporti di Dominic con la moglie e la paura di avere un figlio, una vecchia vedova che sta per morire e le richieste, alcune bizzarre altre meno, ma che comunque aprono squarci su altre vite, dei clienti. Riesce a farlo al meglio e quando finiscono le due ore e venti, con la stupenda sequenza finale, lo spettatore che ha riso, ha pensato e ha pianto si ritrova più completo, quello che i bei film dovrebbero sempre fare. Non banalizza mai, Chan, e riesce a porci di fronte a problemi dovuti a vari contrasti, padre/figli, fratello/sorella, uomo/donna, vita/morte, cattolicesimo/taoismo, professione/famiglia, tradizione/modernità. Ci mostra la vita parlando della morte e lo fa con linguaggio cinematografico adeguato con grande cura ai dettagli. (voto 7,5). Una divertente e nel contempo tragica scena riguarda una Maserati amata in vita da un defunto, ma l’auto più in vista nel film è un’Audi. Poi, nel product placement del film, vediamo prodotti Johnson’s e il cognac Remy Martin. Citazione per Instagram.

Inserito nella retrospettiva sui mostri del folklore asiatico del FEFF 2025, Inhuman kiss: the last breath è in realtà un film recentissimo del 2023. Il mito della Krasue, visto in numerosi film horror Thailandesi, per capirci quella testa volante con attaccate budella tentacolari, è stato rinnovato nel 2019 con il film Krasue: inhuman kiss film addirittura mandato a concorrere per l’Oscar. Inhuman kiss: the last breath ne è il sequel. Sao è la figlia di Sai e Noi, la coppia protagonista del primo film, che dopo la scomparsa della madre è accudita dal padre Noi e sotto cura di un prete locale per evitare che, come la madre, si trasformi in una Krasue. Il prete si prende carico di vari casi “disperati” e superumani, tra cui un albino con il potere di assorbire il dolore e tra questo e Sao nasce un amore. Sui due, però, incombe la minaccia di un terribile Krahang, altro leggendario “mostro” della tradizione thai, un uomo che si trasforma in essere alato che si ciba di carne cruda e caccia le Krasue per mangiargli il cuore… Il film del regista Paphangkorn Punchantarak è apparentabile ai teen romantic horror con rispetto della tradizione locale, ricerca dell’incanto dell’individuo suo malgrado mostruoso che si innamora e begli effetti speciali seppur non esagerati. (voto 6)

Coming of age ambientato nel mondo della scuola taiwanese è The Uniform di Chuang Ching-shen. La protagonista è una ragazzina Ai (la notevole Buffy Chen, brava ed esile attrice presente alla proiezione del FEFF 2025) costretta per mancanza di mezzi (vive con la madre vedova e la sorellina con l’unico sostegno delle ripetizioni date dalla madre, insegnante, ad altre bambine) ad iscriversi alla scuola serale. Praticamente nell’organizzazione scolastica taiwanese esistono nella stessa scuola due tipologie, la scuola diurna accessibile solo ai ricchi e la scuola serale per i meno abbienti. La ragazza si vergogna di essere studentessa di “serie B” e stringe amicizia con Min, la studentessa diurna con cui divide il banco. Con lei comincerà a frequentare l’altro mondo, quello dei ricchi, creandosi un personaggio basato su varie bugie, principalmente per far colpo su Luke, ragazzo bello e di famiglia altolocata, ambito anche da Min… Il confronto di classe nell’educazione è lo spunto originale di un film che si lascia vedere ma che non evita nessuno dei luoghi comuni del cinema di genere scolastico asiatico e non. (voto 5/6) Tante marche di abbigliamento nel product placement del film (Abercrombie, Unifree, Converse, Champion, Levi’s) ma anche una tv Neoka e le citazioni di KFC e McDonald’s.

Stefano Barbacini

© www.dysnews.eu