Qualcuno l’ha definita una spy story, altri un film anticapitalista. Ancora una favola da libro per l’infanzia. In realtà dentro alle tante scatoline che il magnate poco etico Zsa Zsa Korda (nomi e personaggi che rievocano una Hollywood del passato), interpretato da un sornione Benicio Del Toro, sciorina in La trama fenicia vi è il nulla. Sì ci si potrebbe vedere tutto di quello che i critici vi hanno visto, nel film vi è una spia, la morale ipocrita del “saremo più felici quando perderemo tutti i capitali e riusciremo ad essere una famiglia”, gli sfruttamenti del capitale, i voli cartooneschi di aerei che esplodono, ambientazioni esotiche, echi di avventure che potrebbero appartenere a Salgari, Verne o Munchhausen, ma in realtà il film resta principalmente un film di Wes Anderson, con i suoi giochini rigorosi, schematici e matematici.
Tutta la finanza è contro Zsa Zsa e lui sopravvive ad attentati e tentativi di omicidio. Va a tirar fuori la figlia (unica femmina di una prole di dieci), interpretata dalla “simmetrica” Mia Threapleton, da un convento e la convince a partecipare alle sue avventure e ad essere la sua erede. Poi assieme a lei e ad un entomologo (Michael Cera) parte per contrastare i colleghi capitalisti che cercano di sabotare il suo progetto faraonico di costruzione di dighe, ponti e palazzi in “terra fenicia”. La trama parte da alcune scatole in cui vi sono i contratti da andare a cercare di modificare per portare avanti il progetto. Ogni scatola è un episodio del film. Del Toro incontrerà così Tom Hanks, Riz Ahmed, Mathieu Amalric, Scarlett Johansson, Benedict Cumberbatch, tutti amici attori hollywoodiani che si prestano ad interpretare grotteschi ed esotici personaggi.
Tutte le volte, e sono varie, in cui Zsa Zsa rischia di morire ha visioni dell’aldilà in cui Bill Murray è… Dio! Scene buttate lì senza un gran senso in una trama che, nella sua schematicità geometrica, manca di fluidità e coerenza cinematografica. Storielle da avant-garde per intellettuali giocherelloni e facili da accontentare.
La parte visiva del film è come al solito curata in modo maniacale, ogni inquadratura è simmetrica, costruita in modo che attori ed oggetti siano posizionati e si muovano in modo armonico e sincronizzato. Colori e luoghi sono studiati per sollecitare la gioia degli occhi dello spettatore che non può che non gradire. Interessante in questo senso (perché spiega la maniacale voglia di cinema e di creare bellezza del regista) ciò che dice in un’intervista a FilmTv n.21 anno 33 raccolta da Ilaria Feole: “La mia politica è questa: lo so che non abbiamo abbastanza soldi, ma dobbiamo farlo comunque. Senza sforare il budget, ma senza nemmeno rinunciare perché <<non possiamo permettercelo>>. Dobbiamo trovare una soluzione, che di solito è costruire esclusivamente quello che starà nell’inquadratura. Se la macchina da presa si spostasse di mezzo metro da una parte o dall’altra di quello che è in campo, non inquadrerebbe più nessun set, perché il nostro modo di fare economia è concentrarci solo su quello che serve; questo è possibile solo pianificando tutto molto accuratamente, in modo da sapere esattamente quanto serve costruire.” Un visionario meticoloso e determinato.
E’ anche vero che ormai il mondo visivo di Anderson sta diventando maniera e se resta visivamente magnifico non dà più grosse sorprese. Ormai i suoi film sembrano quelle magnifiche scatole di biscotti ben decorate (e che poi teniamo solo per la loro bellezza estetica) che dentro hanno solo qualche dolcetto, magari neanche così buono, che si mangia in pochissimo tempo e poi resta solo la scatola, bellissima ma vuota. (voto parte visiva 6,5, voto al resto 5,5)
Product placement quasi nullo, citazione per sigari Montecristo e una bottiglietta di Coca Cola in mano a Tom Hanks, neanche troppo ostentata.