Il regista Pai Ching-jui, a cui il Far East Film Festival 2025 ha dedicato una minipersonale di tre film, è un regista cresciuto artisticamente (ha studiato al CNC per due anni) e, una volta tornato in patria, ha cercato di portare un’innovazione al linguaggio cinematografico di Taiwan. Il suo primo film, Lonely seventeen (1967) utilizza sperimentazioni visive che si rifanno al cinema psicologico italiano, al melodramma coreano fino agli sprazzi di visionarietà di Michael Powell. Racconta la storia di una ragazzina “secchiona” di una famiglia borghese, tutta scuola e famiglia, che si invaghisce del compagno della sorella più grande (peraltro un dongiovanni cacciatore di dote) che assomiglia al suo idolo Elvis Presley. Quando quest’ultimo muore in un incidente d’auto (in una splendida sequenza sotto una pioggia torrenziale), la ragazza sbrocca e viene ricoverata in un manicomio, convinta di essere lei la causa della morte dell’uomo. Il film scivola verso il moralismo, obbligatorio a quei tempi nel cinema taiwanese, nel finale (i giovani hanno bisogno di una vita più libera, non costretti solo sui libri se no diventano preda di uomini senza scrupoli o della follia), espletato con frasi di ingenuità notevole ma del film ricordiamo i meravigliosi passaggi artistici (il ballo onirico immaginato dalla protagonista, i movimenti di macchina azzardati per rappresentare la sua follia, utilizzo di colori fiammeggianti che risaltano nel bel restauro della pellicola) e un’ambientazione fine anni ’60 che guarda al glamour americano e al divismo hollywoodiano (vari poster di attori come Elvis Presley, Rock Hudson…) tra case borghesi con arredamenti moderni, cabaret e locali notturni con chanteuse e rock’n’roll. Il passato “italiano” del nostro poi viene esplicitato con una divertente scenetta in cui una coppia con figlio fanno caciara e gesticolano alla reception dell’hotel nella nostra lingua (voto 7). L’hotel Ambassador, la salsa A.1. e altre marche in ideogrammi, un paio di spot televisivi in mandarino nel product placement del film.
Accidental trio (1969) racconta tre scappatelle notturne di altrettanti abitanti dello stesso condominio. Un uomo distinto sposatosi da poco esce con una sua ex raccontando alla moglie che è in viaggio d’affari; un anziano travet, che non ne può più della routine quotidiana (ufficio poi a casa con moglie, tre figli pestiferi e i suoceri nello stesso appartamento sono troppo per chiunque…), si lascia intortare da una prostituta e ladra che lo porta in una stanza d’hotel e gli ruba i soldi dell’ufficio; una ragazzina (personaggio molto simile alla protagonista del film Lonely Seventeen) che vuole provare le prime esperienze sessuali, si ubriaca e viene sedotta da un vecchio marpione che la convince ad andare in hotel. Vicende, che sarebbero diventate corrosive nelle mani di Billy Wilder, che si svolgono tutte in una notte con i tre che si ritrovano negli stessi luoghi, prima il condominio medio-borghese, poi un night club ed infine un hotel. Finirà con il ritorno di tutti a casa verso la pacificazione e la sicurezza famigliare… Toni da commedia e solita ricercatezza visiva da parte del regista che utilizza zoom decisi, angoli di ripresa insoliti (alla Orson Welles mi verrebbe da dire) e dimostra ancora di essere affascinato dall’eleganza della perdizione soffermandosi sull’ambiente del night con cantanti che si esibiscono tra il crooner e il pop (la cantante Yao Su-yung canta “Oggi non torni a casa”, canzone che fa da commento al film e che ha una melodia accattivante) e gli avventori che si lasciano trascinare dall’atmosfera piena di soffuso erotismo. “In Accidental trio il regista Pai Ching-jui adotta una struttura narrativa multipla, combinando realismo documentaristico con umorismo raffinato crea una commedia sociale realista dal tono unico. Differenziandosi nettamente dalle popolari commedie slapstick in lingua taiwanese degli anni Cinquanta, Pai introduce elementi originali – come l’uso del tema musicale ricorrente per esprimere l’essenza della storia – e definisce un nuovo modello di commedia urbana borghese.” Scrive Sean Lee sul catalogo del FEFF 2025. (voto 6,5)
Nel 1970 Pai Ching-jui gira forse il suo film più famoso, Good bye! Darling che si allontana dal contesto borghese degli altri due film presenti nella rassegna per addentrarsi in quello popolare. Rientra così nella corrente del “sano realismo” che guardava al neorealismo italiano. In verità la realizzazione voluta dal regista ne è abbastanza lontano, magari più assimilabile alla commedia all’italiana con venature drammatiche, mantenendo il suo stile elaborato con zoomate e movimenti di macchina ben studiati. Ambientato tra le ragazze che compongono una banda musicale femminile, vede protagonista una di queste ragazze che si innamora di uno sbruffone dongiovanni (un leit motiv di tutti e tre i film) e gli si concede sicura che questo abbia messo la testa a posto e voglia sposarla. In realtà l’uomo non ha un soldo e neppure un lavoro e se ne va via. Lei, incinta, decide di promettersi ad un anziano che da tempo la ama ed è disposto a pagare la cifra che sua madre ha deciso debba essere la dote per sposarla. Una volta che l’uomo ha pagato lei però fugge e rintraccia l’uomo che l’ha lasciata. I due cominciano una convivenza contrastata con lui che non si adatta ai lavoretti da poveraccio. Allora decide di diventare autista di camion, unica professione che gli è consona, ma esasperando il lavoro per poter far soldi in fretta, fino a morire in un incidente stradale. Magistrale la sequenza con lui che corre incontro alla morte proprio contro il treno su cui viaggia lei che lo sta lasciando. Ritornerà con il bambino dal vecchio con un’appendice moralistica, voluta dalla produzione, in cui una voce fuori campo in pratica dice che l’uomo si è meritato di morire perché non ha voluto vivere secondo i canoni della rettitudine! (voto 6+) Jeans Lee principale product placement, poi sigarette con marca in ideogrammi.