Il film Hiroshima mon amour (1959) nasce da un’idea di Resnais e Marker per un film documentario su Hiroshima quattordici anni dopo la bomba atomica. La realizzazione è difficile da iniziare e per Marker si tratta di un’operazione impossibile. Allora il film passa per le parole scritte da Marguerite Duras che attorno ai disastri della guerra e a ciò che resta nelle persone che l’hanno vissuta costruisce una complessa e moderna storia d’amore (attenzione, moderna anche per oggi). L’incontro tra un’attrice francese (ad Hiroshima per interpretare una crocerossina in un film “pacifista”) e un giapponese (totalmente giapponese come dice lui) di Hiroshima che ha evitato il disastro del 1945 perché impegnato al fronte, si trasforma in un amore cosciente di essere breve ed occasionale permeato dagli orrori delle rispettive vite passate. Lui porta naturalmente in sé il dolore degli avvenimenti della sua città, lei quello della perdita del suo primo amore, un soldato tedesco ucciso per cui dovrà subire le umiliazioni riservate alle pseudo collaboratrici dell’immediato dopoguerra, il taglio dei capelli a zero, fino a rischiare la follia rinchiusa con il cuore sanguinante in una cantina di Nevers città dove è nata. Entrambi sposati ma incapaci di evitare la loro attrazione carnale avranno difficoltà a fermare questa loro passione seppure si dicono entrambi felici dei loro coniugi. Le meravigliose immagini di una livida e notturna Hiroshima si amalgamano perfettamente con quelle documentarie degli orrori della bomba e con le parole della Duras mai banali e mai accomodanti. Finirà il loro amore? Quanto il bisogno di stare assieme prevarrà soprattutto ora che hanno condiviso i loro dolori e le loro angosce? I due sono il prodotto del loro passato e come si dicono alla fine lui E’ Hiroshima lei E’ Nevers, e il presente? E il futuro? Françoise Audé nel suo libro-saggio sull’emancipazione della donna nel cinema si sofferma sulla figura della protagonista interpretata da un’asciutta e dolente Emanelle Riva: “Nel 1959-60 Hiroshima mon amour era un film adulto, per un pubblico adulto. La sua eroina, direttamente uscita dall’universo intellettuale dell’esistenzialismo, faceva del suo vissuto emozionale una vera presenza nel mondo. Era un essere di carne, di affettività e di soggettività. E questo bagaglio non la facilita nel suo percorso liberatorio (…) E’ uno dei più bei personaggi del cinema francese, una donna.” (Ciné-modèles Cinéma d’elles, Françoise Audé, L’age d’homme, 1981). A sostegno di queste parole i pensieri della protagonista esplicitati dalla poetica della Duras: “Ho fame d’infedeltà, d’adulterio, di menzogne e di morte… da sempre”. Un capolavoro da rivedere per scoprirne la modernità. (voto 8) Sigarette e birra (Sapporo) sono il principale product placement del film che poi dà spazio a molto location placement con Hotel New Hiroshima (dove copulano), Tea Room e locali vari (Casablanca, Cinema Ritz e altri con ideogrammi incomprensibili a noi).
La voce fuori campo di Giorgio Albertazzi recita come una litania: “attraverso questi saloni, queste gallerie, in questo palazzo di un’altra epoca, in questo albergo immenso, lussuoso, barocco, lugubre, dove corridoi interminabili succedono ad altri corridoi, silenziosi, deserti, sovraccarichi di una decorazione fredda e dura, di stucchi, di pannelli intagliati, marmi, specchi neri, quadri dalle tinte scure, colonne, riquadri scolpiti delle porte, prospettive di porte, di gallerie, di corridoi trasversali che sboccano a loro volta in saloni deserti…” presentazione di un luogo (per la cronaca il di Nymphenburg a Monaco di Baviera) dove con le sue carrellate si aggirerà la macchina da presa diretta da Resnais, ma è anche evidente metafora di un luogo mentale, della perdita dell’orizzonte e dell’equilibrio e anche metafora del cinema stesso come lo intende Resnais. L’anno scorso a Marienbad (1961) è un film che dimostra come la psicanalisi e le teorie sul tempo che non esiste o che è un’illusione, teoria che si basa sulla fisica moderna in particolare sulla Relatività di Einstein e sulla Meccanica Quantistica, suggerendo che il tempo non è una dimensione assoluta, ma emerge dall’entanglement quantistico e dalla nostra percezione del cambiamento, possa essere trasposta cinematograficamente. Lo stesso Albertazzi dirà esplicitamente “il tempo non conta”. Di tutto ciò il secondo lungometraggio di Alain Resnais resta capostipite e capolavoro insuperato a tutt’oggi, anche se vogliamo considerare i giochetti elettrizzanti e teorici sul tempo del pur inventivo Christopher Nolan. Marienbad è un film spiazzante fin dall’inizio, da quella voce fuori campo che entra nella scena senza soluzione di continuità per diventare dialogo e tornare poi commento. O come le improvvise e apparentemente insensate scene in cui Albertazzi distoglie lo sguardo dall’interlocutrice per parlare direttamente al pubblico oltre lo schermo. I dialoghi iniziano in un periodo (flashback temporali) e continuano come se non fosse passato il tempo nel presente. I controcampi con un semplice taglio di montaggio si spostano in altri ambienti e con cambiamenti di abiti come fosse passato tempo a cui la scena non dà adito, addirittura anche all’interno di uno stesso piano sequenza i personaggi si trovano in due posti differenti. Si viaggia continuamente seguendo la macchina da presa tra passato e presente, da una stanza all’altra senza che i personaggi si muovano. “La confusione dei luoghi è ammessa dalla stessa voce monologante di Lui, conformemente alla confusione dei linguaggi e delle maschere (…) Lo spazio-tempo della durata o dell’istante resnaisiani è tutt’uno, un unico grumo di divenire racchiuso in un atomo vorticante e inafferrabile” (*). Il film ha tre protagonisti, il narratore, Giorgio Albertazzi, la donna, Delphine Seyrig, e il (forse) marito Sacha Pitoeff. Albertazzi segue la Seyrig per tutto il film cercando di farle ricordare avvenimenti di un anno prima avvenuti forse in un luogo forse in un altro, svoltisi in una maniera, forse in un’altra (tutto è relativo e incerto), avvenimenti di cui i due sono stati protagonisti insieme. Lei non ricorda nulla di questo. O forse fa finta. O forse Albertazzi si inventa tutto. Il terzo personaggio è il probabile marito, forse, più (ir)realisticamente una metafora del destino e della morte. Gli indizi in questo senso sono quel volto “mortuario” di Pitoeff e il fatto che il personaggio sia inesorabilmente imbattibile in un gioco, l’ineluttabilità del destino, cosa che ricorda assai la partita a scacchi di bergmaniana memoria. Ma non è che nel film vi sono solo questi tre personaggi, il palazzo è pieno di altri invitati ma è come “se fossimo soli io e voi” ripete come un mantra Albertazzi. E infatti “gli altri” sono a far tappezzeria tanto quanto gli specchi e gli arredi, con dialoghi irrilevanti tra di loro e a tratti si immobilizzano come fossero statue; si rivolta qui il concetto delle statue che vivono e muoiono (Anche le statue muoiono corto del 1953), qui sono gli umani che diventano inanimati. Vi sono alcune sequenze che ricordano Parigi che dorme (1924) dell’amato (da Resnais, ma pure da qualsiasi cinefilo) René Clair con i due amanti (?) che si aggirano tra invitati completamente immobili. Ma non è un film che ha l’aspetto filmico tipico dei film sperimentali, è un film di un’eleganza formale eccezionale, a partire dallo splendido bianco e nero (se non riuscite a recuperarlo al cinema cercate di reperire l’edizione dvd della Criterion, splendida) e da tutti quegli specchi e quelle porte che rimandano a Cocteau. Ma l’eleganza è data anche da Delphine Seyrig, una delle poche attrici che l’eleganza se la portano nei tratti del viso e la mantengono anche se devono interpretare una modesta prostituta (Jeanne Dielman, 1975) o una popolana al mercato (di questo tipo di attrici ricordo Deborah Kerr, Grace Kelly, Audrey Hepburn e poche altre). La sperimentazione sta tutta invece nei movimenti di macchina, nel montaggio (vi è anche una piccola sequenza in cui il montaggio diventa serratissimo con frame brevissimi, quasi intelligibili), nelle sequenze atemporali, nei richiami cinefili (addirittura hitchcockiani e in una scena appare dietro ad una tenda una figura che sembra proprio una sagoma o una controfigura del grande Alfred) e, naturalmente, nella sceneggiatura di Alain Robbe-Grillet che fa del film sicuramente il migliore mai fatto con i concetti del Nouveau Roman. Prendetevi il tempo, se non lo avete mai fatto, per entrare in questo splendore senza aver pretese di coerenza narrativa, è un film teorico ma visionario allo stesso tempo. Parlando della presunta incomprensibilità del film, Resnais risponde: “Il film ha ricevuto più opposizioni da parte della gente molto colta, molto <<culturale>>, che non da parte degli spettatori che si lasciano andare al ritmo della costruzione. L’anno scorso a Marienbad, tratta semplicemente di due o tre temi che si sviluppano, sono ripresi, si mescolano… Se si guarda all’immagine e al montaggio, è interamente musicale” (IV). Tradotto non c’è bisogno di troppe pippe mentali, lasciatevi andare alla bellezza del cinema-cinema. “Resnais spinse al massimo le sue ricerche precedenti in un’opera difficile: L’anno scorso a Marienbad. I protagonisti, quasi dei fantasmi, erano rinchiusi in un palazzo barocco e un parco dalle forme geometriche. I lati oscuri della sceneggiatura (…) non impedirono a questo film di rappresentare più un ritratto metaforico di alcuni ambienti francesi del 1961 che non un ritorno agli anni 1915-1925, alle vamp o all’antica avanguardia” (***). “(Marienbad) marcherà una tappa del tutto decisiva, nel senso di un <<gioco di forme più forte dell’aneddoto>> secondo il desiderio del cineasta.” (**) “Con una sinuosa e musicale organizzazione dello spazio e del tempo, Resnais trasforma il mondo, descritto da Alain Robbe-Grillet con la sua prosa secca da “scuola dello sguardo”, in un universo onirico, in uno spettacolo incantatorio dove, ridotta a mera apparenza, la realtà divente polisensa. Il sospetto che questo film d’evasione e di alienazione si riduca a un esercizio di stile è forte. Comunque, da vedere e rivedere” (voto 9)
*Sergio Arecco, Alain Resnais o la persistenza della memoria, Le Mani, 1997
**Jean-Loup Passek, Dictionnaire du cinéma, Larousse
*** Georges Sadoul, Storia del cinema Mondiale, Feltrinelli economica
IV) François Thomas, Trente ans avec Alain Resnais Entretiens, Les Impressions Nouvelles, 2022
V) Joachim Lepastier, A la taille de l’amour, Cahiers du cinema Aprile 2014
VI) Morando Morandini, Il Morandini 2011, Zanichelli