Con Passione (1968) Bergman torna all’isola, Faro, quell’isola metaforica e reale allo stesso tempo che diventa contenitore di dubbi, amori, odi, incomunicabilità e violenza che sia fisica o psicologica. Un’isola che è ben lontana a rappresentare l’estiva libertà sessuale ed emotiva giovanile di Monica e il desiderio, ad esempio, ma neppure quella quasi invisibile degli ultimi film che soffocavano problemi morali e psicologici in poche spoglie stanze. Qui intanto arriva il colore (dopo l’unica parentesi di A proposito di tutte quelle signore), un colore invernale, a volte azzerato in un rosso monocromatico. Quindi non più contrasti luce-ombra ma uno spento vagare verso il nulla, l’azzeramento. Qui l’isola è rappresentata durante l’inverno, tra neve marcia e pozze d’acqua fangose. Il mare praticamente non si vede mai, non si vede l’orizzonte per uscire dalla gabbia dei rapporti tormentati tra uomini e donne. Non esiste via di fuga. Un’anticipazione di Scene da un matrimonio, con l’amore di coppia pieno di contrasti, amore e insoddisfazione, infedeltà e riconciliazione. Incapacità di restare soli ma anche di convivere. E’ anche un’osservazione sulla violenza e sulla verità con il “gioco” metacinematografico degli attori intervistati che parlano dei loro personaggi. Bergman comincia a girare attorno agli stessi argomenti, a riproporre impietosamente spezzoni delle sue relazioni tumultuose con una stanchezza pessimista, dolorosa. Un uomo (Max Von Sydow) ha deciso di isolarsi sull’isola dopo essersi lasciato con la donna che amava. Qui incontra Liv Ullman che interpreta Anna, una donna distrutta psicologicamente dopo un incidente d’auto in cui sono morti il marito e il figlio. I due si incontrano mentre parallelamente scorre il rapporto di coppia di due amici, Eva (Bibi Andersson) e Elis (Erland Josephson), lui artista e lei portata all’adulterio (anche questo tipo di rapporto lo abbiamo già visto in precedenti opere di Bergman). Tra ellissi, voce interiore dell’uomo e le vicende di un altro amico che viene linciato dagli abitanti dell’isola perché accusato ingiustamente di aver ucciso degli animali, avanza il rapporto, ora affettuoso, ora turbolento, tra i due. Fino a scoprire che probabilmente i precedenti rapporti dei due, con i partner che ora non ci sono più, non sono stati realmente come da loro raccontati ma sono lo specchio della loro deriva. Lo sguardo di Begman è senza pietà soprattutto nel finale con una forte scena di violenza e la desolazione dell’abbandono. Non mancano metafore, primi piani che turbano nella loro bellezza e sprazzi sull’attualità dalla televisione, il nuovo mezzo a cui presto si dedicherà in esclusiva il regista. “Il film distilla una tale bellezza elegiaca, un tale distacco da se stesso, che sembra ribellarsi alla tentazione nichilista che lo percorre. Tutto concorre a designare Passione come il segno precorritore di una fine corsa, di una lirica preparazione agli addii: il passaggio definitivo al colore, con una magnifica tavolozza impressionista, una stupefacente libertà di omissioni nella narrazione, i commenti degli attori sui personaggi che interpretano, il finale con la dissolvenza in lontananza del protagonista maschile e il presentimento che nulla può rinascere su una terra bruciata.” Jacques Mandelbaum, Maestri del cinema, Ingmar Bergman, Cahiers du Cinema. (voto 7) Due marche nel product placement del film, il Gordon’ dry gin e la macchina fotografica Nikon.
“Quest’uomo che tanto ha dato al cinema, che è andato fin dove gli era moralmente ed esteticamente possibile, che ha freneticamente accumulato conquiste sentimentali e professionali, che ha dato in pasto al pubblico ‘carne e sangue’, non trova più nella macchina da presa un mezzo né di rinnovamento né di conforto.” (*) L’adultera (1971), produzione internazionale girata in molte parti in lingua inglese, è un film che con il Bergman che conosciamo ha poco a che fare. Un solo suo tema ricorrente è qui inserito, quello del rapporto di coppia, ma è trattato superficialmente senza approfondimento drammatico e psicologico se non quello che potrebbe fare (e ha fatto) un qualsiasi regista americano, cito solo Mike Nichols o Arthur Hiller perché sono i primi che mi vengono in mente ma potrei aggiungere una lista intera. Il film è semplice, una “normale” storia di adulterio in cui la sempre fantastica Bibi Andersson, ormai donna di mezza età, interpreta Karin, una donna svedese, moglie di Andreas (Max Von Sydow ormai abituato, con Bergman, a vedersi affibbiati ruoli di uomo lasciato o tradito) e madre di un’adolescente che incontra un giovane archeologo (Elliot Gould, non all’altezza della splendida Andersson) e se ne innamora. Un incontro totalizzante, esaustivo, di coinvolgimento assoluto. Però Karin non può e non vuole abbandonare la sua famiglia. Intanto l’archeologo dà segni di irritazione e rabbia istintiva, totalmente il contrario del compassato e ragionatore che è il marito. Me ne vado, non me ne vado. Fuggo da te ma poi non ci riesco ecc. Diciamo che è la versione soft di Scene da un matrimonio che girerà due anni dopo senza il bisogno di fare un film che accontenti il grande pubblico e i finanziamenti americani, “un film di poco valore che mi ha fatto guadagnare un bel po’ di soldi” dichiarerà de L’adultera Bergman. “Bergman si lascia tentare dal divo americano di turno, Elliot Gould, dal colore usato in chiave semplicemente realistica, dalla musica pop adottata per sottolineare l’affaccendarsi di Bibi Andersson attorno ai fornelli (tipo Doris Day), dalla trama del solito triangolo, un genere reso famoso fino ai limiti del sentimentalismo” (**) A mio parere non è però un brutto film in assoluto, è un film sicuramente minore del maestro svedese ma in cui la fotografia è ammaliante, in cui la Andersson brilla, in cui comunque vi è cinema professionale e a tratti coinvolgente. Se non fosse firmato Bergman non sarebbe stato trattato così male: “Preziosismi visivi (gli insistiti motivi floreali) e facili espedienti narrativi (…) sfiorano il kitsch” (Mereghetti); “Libertà vs. security: il trattamento Bergman è rivolto ad una love story famigliare, ma l’attesa finezza latita” (Halliwell); per altri è il più brutto film di Bergman. Non lo tratta male però Kezich: “si mantiene entro i limiti del suo mondo poetico (di Bergman ndr) con l’abituale rigore (…) Il film è un dramma soffocato sulla liberazione della donna.” (voto 6)
Trovo anche affrettato ed eccessivo il commento di Mandelbaum sulla “fine” del Bergman maggiore perché subito dopo L’adultera gira il suo capolavoro assoluto, Sussurri e grida (1970) (voto 10)
Un’altra, a mio parere, minimizzazione di un film di Bergman avviene da parte di Trasatti (**): “Scene da un matrimonio (1972) è un film di grande verbosità, un lunghissimo, interminabile dialogo a due voci. E’ una meticolosa radiografia di una coppia analizzata fin nei minimi particolari per cercare la risposta a una domanda: perché i matrimoni falliscono? (…) I mezzi espressivi sono ridotti al minimo. Tutto si svolge in interni, salvo qualche breve stacco. La macchina si muove pochissimo. Il prodotto è tale da poter essere fruito con qualche risultato anche senza le immagini, magari alla radio.” E poco altro nella sua monografia sul regista edita dal Castoro dove per altri film ha impiegato più pagine. La critica è di fine anni ’80 e può darsi che allora non ne si sia carpita l’importanza. E’ vero che il testo si presta ad essere rappresentato a teatro (Lavia ne trasse uno spettacolo visibile anche su Raiplay) ma nella sua versione estesa (quella televisiva) ha recentemente risvegliato gli interessi di Hagai Levi che ne ha tratto un remake in forma di miniserie televisiva. Rivisto oggi è un film della sua epoca ma che mantiene la potenza del suo rigore, il misto di tenerezza e crudeltà dei due protagonisti (Liv Ullman e Erland Josephson) che si amano, si picchiano, si lasciano, si ritrovano, è molto a portata d’uomo. L’intellettualismo metaforico con cui gli stessi argomenti sono stati affrontati da Bergman in precedenti capolavori, qui lascia il campo ad una semplicità ed una naturalezza (che non è il semplicismo “americano” di L’adultera) che diventano per contrasto sperimentazione. Il colore neutro e le immagini leggermente sgranate al passaggio al 35 mm con cui Nykvist caratterizza la pellicola sono, sì “televisive” da un certo punto di vista (ma dimenticatevi certe nullità viste in tv nel periodo), ma mantengono le caratteristiche della visione voyeuristica di Bergman soprattutto sui volti delle donne. Ancora una volta il regista conferma che il paesaggio che più lo intriga è quello del volto femminile e la camera si sofferma, dandoci intense immagini, sul volto della Ullman, quel volto particolare che ricorda alcune sculture africane, e sui suoi occhi di un azzurro accecante per chi li guarda. “Bergman inaugurerà un nuovo modo per unire gli elementi della sua opera, scavandola dall’interno. E non lo ha fatto, come spesso si crede, secondo un luogo comune esegetico, per realizzare i suoi ‘capolavori della maturità’, bensì per rivisitare il proprio cinema nel laboratorio televisivo (…) Sebbene evochi nella forma i ‘drammi da camera’ di Strindberg, il film è una tragedia moderna capace di esprimere la tensione fra l’epidermide e la retorica, la superficie sensibile del volto e la proiezione astratta del linguaggio” (*) (voto 7/8). Vi è lo spazio anche per il product placement del cognac Hine.
Film-opera, tra opera filmata e invenzione cinematografica. Bergman porta al cinema l’amata opera di Mozart Il flauto magico (1974) inscenandola parzialmente in teatro ma lasciandosi spazi per il linguaggio cinematografico che in realtà dovremmo dire televisivo, ovvero il mezzo che in questi anni sta esplorando il regista. L’ouverture dell’opera viene lasciata scorrere con Bergman che inquadra, in montaggio a ritmo della musica, i volti degli spettatori che, appunto, stanno per assistere all’opera. Tra gli spettatori intravvediamo Erland Josephson e lo stesso Ingmar Bergman, ma è il volto di una bambina, che rivedremo per tutto il film sottolineare le emozioni causati dalla rappresentazione che spesso sono volutamente infantili (gli animali, Papageno e Papagena trattati con estrema leggerezza, in genere tutto ciò che è rappresentato sul palcoscenico) ma nei momenti migliori diventano dark e quasi horror. Le tre dame e la Regina nera sono a tratti terrificanti e lo studio sulle donne tipico del regista continua anche qui, pur nel rispetto del testo mozartiano. Poi quel gioco di male e bene che si capovolgono rispetto all’inizio è acqua in cui Bergman sguazza con godimento. Tra leggerezza e potenza visiva la favola musicale diventa cinema a tutti gli effetti e la maggior parte dei critici vi ha trovato un’inedita capacità di rendere un’opera, mantenendone le caratteristiche teatrali, sullo schermo: “Stupefacente film-opera sulla partitura mozartiana prodotto per la televisione svedese che – pur rimanendo fedele al testo – si trasforma in una summa delle tematiche bergmaniana (…) Un unicum non solo nella filmografia del regista (…) ma anche nella storia del genere, e per questo osannato sia dai critici cinematografici che quelli musicali: il segreto della riuscita è nello straordinario equilibrio tra musica, teatro e cinema, tre arti riunite all’insegna di una rappresentazione intima, giocosa e sensuale” scrive ad esempio il Mereghetti nel suo Dizionario. “Ambientato in un vecchio teatro che esalta le virtù barocche di quest’arte, mette in scena l’opera di Mozart, esacerbando la meravigliosa vertigine della ricerca iniziatica e della lotta secolare fra ombra e luce” (*) (voto 6/7)
Con L’immagine allo specchio (1976) l’analisi della donna da parte di Bergman si fa psicanalitica. Per ironia tipica del regista la protagonista Jenny Isaksson (Liv Ullmann) è una psichiatra, sposata ad uno psichiatra, che dovrebbe curare dei malati di mente (in particolare la sua attenzione si posa su Maria, una povera donna che non ritrova più se stessa) e che invece, a sua volta, dopo varie vicissitudini personali che la portano prima a casa dei nonni, poi ad accompagnarsi ad un ginecologo omosessuale (Erland Josephson) e infine a subire un tentativo di violenza sessuale da parte di due sconosciuti, cade in quella depressione che incontra tutti i giorni all’ospedale dove lavora e la porta a tentare il suicidio. Non morirà ma si ritroverà in una discesa verso la malattia mentale tra incubi e ricordi. Ricordi dei genitori morti, delle punizioni subite da bambina, della mancanza di affetto verso la figlia e della lontananza del marito. La figura della psicologa potrebbe essere la stessa della protagonista de L’adultera o di quella di Scene da un matrimonio, solo che la sua interiorità non viene mostrata dall’esterno e dalle azioni come per le precedenti ma viene indagata con i metodi della psicanalisi. Un autopsicanalisi per la verità, dato che non vi è nessun collega ad aiutare la donna (e dopotutto lo stesso Bergman ha fatto dire alla protagonista in precedenza che la psichiatria non cura nessuno), quindi è lei stessa che deve uscirne e lo farà vedendo l’amore che la nonna ha per il marito morente. L’amore, la semplicità della vita. Riscoprire l’empatia con il mondo, liberarsi da ciò che è falso e riscoprire ciò che conta. L’opera nasce come serie televisiva in 4 puntate poi ridotta, come Scene da un matrimonio, in un film di un paio d’ore. Non ha la secchezza e la forza impietosa di Scene… e spesso sembra deviare dal filo principale. Per assurdo le scene più ricercate visivamente (quella dello stupro con lo schermo diviso in due da un muro divisorio, quella degli incubi in cui la Ullmann vestita di rosso cardinale vaga per il regno dei morti e incontra anche i genitori defunti, quelle delle visioni gotiche di Jenny che vede una megera inquietante osservarla) sono quelle che rendono il film meno compatto e meno preciso verso l’obbiettivo che forse il regista voleva raggiungere. Certo, la scrittura è generalmente sempre brillante, piena delle inquietudini che sono principalmente quelle del regista stesso e delle donne che ha incontrato nella sua vita; i primi piani sempre sorprendenti per intensità e la Ullmann superlativa, ma il tutto appesantito dalla mancanza di coerenza stilistica. “Nonostante abbia origini televisive, L’immagine allo specchio non è opera minore, come qualcuno a torto l’ha definito. Vi ritroviamo con molta precisione e intensità i temi fondamentali della poetica del regista, e ve li ritroviamo con una lucentezza formale di prim’ordine.” (Ingmar Bergman, Sergio Trasatti, Il Castoro). “In questo esperimento, che ha momenti di intensità quasi insostenibili, l’intrepida attrice è una specie di cavia.” (Tullio Kezich, Il Millefilm). “Atroce, straziante, bellissimo ritratto di donna che non ha mai veramente amato perché non è mai stata amata (…) Qualche passaggio didattico, ma anche momenti di struggente tenerezza. Purtroppo, dopo una prima parte compatta e coerente (fino al tentativo di suicidio), il racconto si sfilaccia.” (Morandini) “L’incapacità di raccontare l’origine di queste paure (o, come ha rivelato l’autore, la paura di scavare davvero a fondo) appesantiscono la narrazione e le sequenze di sogno sono troppo sintetiche, mentre la realtà appare sfilacciata.” (Mereghetti) (voto 6/7)
Fondamentalmente L’uovo del serpente (1976) è un thriller-horror di ambientazione storica. Qualcosa che Bergman non aveva ancora sperimentato dato che è anche un film direttamente politico. Alla soglia dei sessant’anni e a trenta dalla fine della guerra, Bergman fa i conti con il periodo della sua infanzia quando ha attraversato gli anni preparatori all’ascesa di Hitler, la Germania di Weimar. Giunge a girare a Monaco grazie a Dino De Laurentis che gli dà un cospicuo gruzzolo (il budget più alto mai avuto per un suo film finora), dopo che per il regista con l’ultima moglie se ne è andato dalla Svezia e dall’amata Faro per motivi fiscali per cui in patria è stato messo alla gogna mediatica. E’ sicuramente il film più pessimista e apocalittico della sua filmografia. Un trapezista rimasto senza lavoro trova il fratello, con cui vive, suicida sul proprio letto. Per portare la notizia alla cognata, Manuela (Liv Ullmann) separatasi dai due uomini con cui lavorava pure al circo, la rintraccia in un cabaret in cui fa un numero di varietà. Si farà ospitare da lei e insieme cercheranno di sopravvivere in una realtà in cui i marchi ormai si scambiano a peso dato che non hanno più alcun valore. Circondati da personaggi disillusi, alcolizzati, perversi, naufragati, degradati. Paradigmatico l’incontro con una prostituta a cui il protagonista, l’ebreo Abel Rosenberg (David Carradine), intima “vai all’inferno” e questa risponde “non siamo già all’inferno?”. Si vive in un clima di continua paura, di ineluttabile attesa di un disastro definitivo, della fine. I due finiranno nelle mani di un personaggio ambiguo, uno scienziato tedesco di nome Vergerus (Heinz Bennent) che in quanto ad ambiguità diabolica si accompagna ai personaggi dallo stesso nome, come quello de Il volto e che sarà ripreso in Fanny e Alexander, che sembra innamorato di Manuela ed era un amico d’infanzia di Abel che lo ha sempre odiato. Lo scienziato fa esperimenti sugli esseri umani anticipando quelli dei nazisti e proprio lui preannuncerà quello che succederà nel futuro: la gente frustrata, impoverita, senza futuro crederà a qualcuno che gli darà speranza, certezze, orgoglio nei suoi discorsi andando verso a quella tragedia che poi la storia ci ha consegnato. Liv Ullmann è superlativa, prima nel ruolo di soubrette di varietà, poi diventa la donna piena di forza e sensi di colpa che vuol salvare Abel dopo che non vi è riuscita con il fratello, ed infine diventa la dimessa e sconfitta come appare nel tragico finale. “Il film si dipana in un’atmosfera cupa. Predominano le tinte scure, la luce effettata, contrappuntate di tanto in tanto da immagini solari e chiassose accompagnate da suoni fragorosi quando l’attenzione si sposta nel cabaret. Non a caso le scenografie sono firmate da Rolf Zehetbauer, collaboratore di Bob Fosse in Cabaret. L’ambientazione negli anni Venti ha suggerito a Bergman alcune soluzioni che ricordano l’espressionismo tedesco. Il modo di fare cinema in quel periodo. Ma il film contiene pure reminiscenze kafkiane” (**) Essendo un film diverso dal mondo poetico solitamente frequentato da Bergman molti lo accolsero tiepidamente: “Una performance principale scadente e troppe cadute nel cattivo gusto, gli interessi del tipo che si associano al regista sono molto incidentali” (Halliwell’s) “Un buffet di depravazioni che fanno della storia del trapezista ebreo nella Germania pre-WW2 un’esperienza opprimente e spiacevole. Il lavoro del direttore della fotografia Sven Nykvist è brillante come sempre, ma Carradine è decisamente fuori ruolo” (Maltin). “Opera minore di Bergman che, nel discorso politico, è spaesato, nella violenza terroristica e nel suicidio è forzato e artificioso. Si è troppo incalzati da citazioni visive e da ritorni tematici delle sue opere” (Morandini). Un po’ meglio lo recensisce Kezich: “Si risolve in un elegante studio sul caligarismo, cioè su quel particolare tipo di riduzione della profezia politica o apocalittica a horror story che ebbe tanto successo nel cinema espressionista (…) Ma il vero acrobata è il regista, costretto a volteggiare fra le proprie istanze culturali e l’impegno a fare spettacolo, fra il gusto di andare in fondo e l’obbligo di girare in inglese. Ne conseguono l’evidente spaesamento degli interpreti principali David Carradine e Liv Ullmann, e il ricorso un po’ aneddotico alle tradizionali raffigurazioni dell’ambiente evocato (si pensi naturalmente a Grosz, a Brecht e in genere a un teatro di tipo strehleriano)”. In summa direi che tutti hanno guardato al film come opera di Bergman e non come film a sé stante. Se lo vediamo come cinema di genere e lo compariamo a tanta fuffa prodotta prima e dopo nel campo, non possiamo invece che coglierlo più positivamente (voto 6,5)
Ritorno alle atmosfere psicanalitiche dei rapporti umani di cui Bergman è maestro e da cui è, allo stesso tempo, ossessionato. Sinfonia d’autunno (1977) è un crudo e senza filtri incontro/scontro tra una madre (Charlotte/Ingrid Bergman) e una figlia (Eva/Liv Ullmann), la prima famosa pianista che non ha mai avuto (o voluto avere) tempo per la famiglia, la seconda una donna che lavora per la chiesa e si è accompagnata ad un Pastore, Victor, e conduce una vita più o meno serena nonostante la perdita del figlioletto annegato a 4 anni. Bergman “lo fa con un’opera semplice, rarefatta, solenne (…) Il film è avarissimo di emozioni visive, si snoda come un lungo dialogo a due interrotto brevemente qua e là da rapidi flashback, da brevi riflessioni di Victor, dai lamenti di Helena” (**) Helena è il convitato di pietra del rapporto tra le due donne. E’ la figlia e sorella ammalata e gravemente handicappata che Charlotte aveva rinchiuso in un istituto e che Eva ha voluto a casa sua con il marito (“così ho qualcuno da accudire”). Sono bordate emotive ma non sentimentalistiche (differenza rimarcata da Charlotte citando) tra le due donne. Accuse pesantissime di Eva per un suo aborto da ragazza, per non essere mai stata vicino a loro e quando lo era voleva dirigere le loro vite, per aver “rubato” l’uomo amato da Helena aggravandone lo stato. “La macchina da presa è quasi sempre immobile. Ascoltiamo parole, vediamo volti. Si è parlato di teatralità. Meglio sarebbe parlare del massimo grado di concentrazione ottenuto da Bergman nell’uso dei diversi strumenti di comunicazione sociale: teatro, cinema, televisione.” (**). Bergman rimesta il suo cinema, la sua autobiografia, le sue considerazioni sulle relazioni interpersonali. Sono due donne che si confrontano, sono due grandi attrici che le interpretano, ma sono al servizio dell’Io tormentato e sempre in gioco del regista svedese, qui, dopo le vicende con il fisco svedese, ancora fuori patria (il film è girato in Norvegia). Bergman di questo film disse: “un critico francese scrisse con acutezza che Bergman ha fatto un film alla Bergman. E’ ben formulato, ma seccante. E penso corrisponda al vero”. “Si può rimproverare a Bergman di non aver avuto fiducia fino in fondo nell’interesse dello spettacolo offerto dalle due attrici (la vicenda della sorellina spastica è superflua); ma dal film nel suo complesso, al di là del risultato di certe situazioni (…) sembra emanare un’aria di alto manierismo” (Tullio Kezich). “C’è, forse, più astuzia drammatica che vera ispirazione con il sospetto di un manierismo di alta scuola” (Morandini). (Voto 6,5). Kodak, Steinway e Mercedes possibile product placement.
“E’ uno dei film cui Bergman è più affezionato, ma anche uno dei film più sottovalutati dalla critica, a cominciare da quella tedesca.” (**) Con Un mondo di marionette (1980) Bergman torna a girare in Germania e torna all’amato bianco e nero, salvo l’incipit folgorante e la coda che sono a colori. Se un amante del cinema si approcciasse a questo film senza sapere chi lo ha diretto e vedesse solo il prologo, con quel rosso, quel ruvido rapporto tra cliente e prostituta, quell’inaspettato omicidio con violenza carnale al cadavere, potrebbe pensare di star per vedere un film di Fassbinder… Il resto del film come detto è in bianco e nero e non è un segreto che lo stesso regista affermasse che il colore ne limitava la visionarietà (“il colore, diceva, grida, fa troppo chiasso, e d’altra parte scegliere i colori smorti finisce per avere poco senso: tanto vale lavorare sul bianco e nero, che aiuta la concentrazione, consente più incisivi giochi di luce, elimina ogni distrazione”**). A parte il capolavoro Sussurri e grida in effetti gli ultimi suoi film a colori erano piuttosto limitati da questo punto di vista, il colore sottraeva espressività. Tornato al suo standard amato, sempre con Nykvist a fotografare, Bergman torna ai suoi livelli più alti di ricerca visiva permettendosi innesti sperimentali, spudoratezza sessuale, ripresa di esperimenti passati. Il film è bergmaniano al 100% ma lo psicodramma dei rapporti umani viene esasperata verso la ruvidezza del Nuovo Cinema Tedesco. La “battaglia” dei sessi che vede stavolta protagonisti l’imprenditore Peter Egerman e la moglie modista Katarina, approda al crimine. Peter uccide una prostituta perché vorrebbe uccidere Katarina. Tornando a Fassbinder “ogni uomo uccide ciò che ama”. Qualcuno scriveva che Bergman era principalmente un grande scrittore e in questo film arriva ad uno dei suoi massimi (“Il maestro svedese ha scritto un testo impeccabile, quasi sempre degno di un’alta scuola della nevrosi, dove però il personaggio più nuovo è quello marginale del vecchio pederasta” scrive Kezich). Ma il film verboso quanto Sinfonia d’autunno e Scene da un matrimonio ha però l’intensità visiva e psicologica di L’immagine allo specchio. Insomma, come ben dice Trasatti, è ingeneroso sottovalutarne il valore. Non è forse il più bel film di quest’ultima fase artistica di Bergman (quella diciamo psicanalitica) ma uno dei più compiuti. Eppure non è piaciuto o non trovandovi il “solito Bergman” ha spiazzato. “Un Bergman minore, tardo e trucido, che ha l’aria del déjà vu. L’angoscia comunque non è del tutto fasulla” (Mereghetti). “E’ uno dei suoi film più disperati e torvi. Ha la freddezza di un referto medico con momenti di intenso bagliore e almeno un personaggio memorabile, l’omosessuale Tim.” (Morandini) (Voto 7+)
(*) Jacques Mandelbaum, Maestri del Cinema: Ingmar Bergman, Cahiers du Cinema
(**) Sergio Trasatti, Ingmar Bergman, Il Castoro