Alain Resnais è “una delle personalità più notevoli, e più difficili da inquadrare, del cinema francese (…) Tutto (le sue opere ndr) ha l’aspetto di un’affascinante Atlantide, dove non ci si stanca mai di immergersi. Una rivoluzione nella scrittura filmica comparabile a quella operata da Orson Welles in Quarto potere. Un perfezionismo nell’elaborazione delle sceneggiature, delle ambientazioni, del montaggio visivo e sonoro, come se ne conoscono pochi altri esempi” (**)
“Alain Resnais è il secondo montatore del mondo dopo Ejzenstejn. Per entrambi, montare vuol dire organizzare cinematograficamente, cioè prevedere drammaticamente, comporre musicalmente; in altre parole, le più belle: mettere in scena… Resnais semplicemente ha inventato la carrellata moderna, la sua velocità di corsa, la sua brusca partenza e il suo arrivo lento, o viceversa” (Jean-Luc Godard, A ciascuno il suo Tours, in Il cinema è cinema, Garzanti, Milano). Considerazioni e ammirazione del teorico della nouvelle vague e studioso per immagini della storia del cinema per il regista sulla complessità della sua opera e adattissime ai suoi primi corti “ufficiali”, dedicati all’arte, alla pittura, quindi all’immagine pura senza ancora attori o personaggi reali o fittizi, corti in cui Resnais sperimenta la sua personale ricerca cinematografica. Van Gogh (1948) e Gauguin (1949) sono sorprendenti per come sono strutturati. La vita dei due pittori, o perlomeno a grandi linee i posti dove sono “fuggiti” (la Provenza per il primo, Tahiti per il secondo), l’insoddisfazione del vivere, le radici ripudiate, sono illustrate semplicemente montando immagini dei loro quadri con un commento esterno e, naturalmente, musica incalzante. E’ qui che l’amore per l’animazione e per il fumetto che gli conosciamo fanno la loro prima apparizione. Sono due film sperimentali più che documentaristici che anticipano il lavoro dei registi che più tardi utilizzeranno il found footage come principio fondamentale della loro arte. I due filmati sono in bianco e nero quindi senza quel colore che è invece fondamentale per l’arte dei due autori, eppure tengono benissimo perché drammatizzano ciò che il colore distrae (più in Van Gogh che in Gauguin), ovvero mettono a nudo il segno, il rabbioso stilema personale dei due pittori, entrambi infelici seppur per motivi diversi. La scelta di due autori che appartennero solo lateralmente al movimento impressionista ci fa considerare che in parallelo anche Resnais fu allo stesso modo considerato far parte di un movimento, quello cinematografico della nouvelle vague. Chissà che proprio questo sentirsi liberi di infrangere modalità narrative nuove ma già standardizzate non fosse ciò che accomuna regista e pittori scelti per le sue prime opere. (voti rispettivamente 7 e 6+)
Ma il cortometraggio in cui viene meglio raffinata questa sua capacità di rendere animate immagini statiche come quelle dei quadri con l’utilizzo della tecnica di movimento della macchina da presa, è il successivo Guernica (1951). “I dettagli dei quadri deflagrano al ritmo di una cinepresa e di un montaggio mobilissimi che, nel loro movimento delirante, mimano le esplosioni delle bombe e delle mitragliatrici. Come in un collage cubista, si accavallano, accanto ai quadri, dettagli e ritagli di giornali, tracce di murales e la macchina da presa s’affanna e s’accanisce a isolarne le parole-urlo: Guerra, Fascismo, Resistenza, Invincibile. Per <<cantare>> un pittore e una pittura cubista, Resnais mima un montaggio cubista, come faceva Majakovskij coi suoi agit-film” (*). Il film è impreziosito dal testo fuori scena che è l’ode tragica dedicata al massacro fascista del 1937 sulla popolazione civile di Guernica di Paul Eluard, recitata da Maria Casares. “Un meraviglioso poema lirico sulla guerra di Spagna” (***) (voto 7)
Altra cosa è Anche le statue muoiono (1953) che inizia anche questo come film sull’arte (stavolta non quadri ma statue, particolarmente statue di arte “negra”) ma poi diventa un vero e proprio documentario tra l’etnografico e l’antirazzista e anticoloniale. “Quando gli uomini muoiono fanno il loro ingresso nella storia. Quando le statue muoiono fanno il loro ingresso nell’arte. Questa botanica della morte è ciò che noi chiamiamo cultura” queste sono le parole d’introduzione al film su sfondo totalmente nero. Il testo à di Chris Marker, il documentarista dal punto di vista formale forse più famoso di sempre, un artista che ha aperto una via nuova alla non-fiction anticipando anche l’autofiction. Anch’egli alle prime armi registiche incontra professionalmente Resnais e con lui girano quest’opera tutta rivolta al mondo africano, alla loro arte primigenia, alla perdita della loro identità con l’arrivo della colonizzazione, al razzismo del mondo bianco. E’ con una frase dolorosa e dura che Marker sottolinea questo passaggio: “il nero-schiavo è diventato il nero-pagliaccio”. La loro arte, i loro riti, le loro danze diventano spettacolo ad uso dei bianchi e alla commercializzazione. “Il film è ancora una meditazione, meno lirica delle precedenti ma ugualmente intensa, sull’irrecuperabilità del tempo e della memoria storica dentro un presente che tutto omologa e snatura.” (*) Tutti questi corti “sono modelli d’analisi estetica e d’efficacia emozionale.” (**) (voto 7)
Nel 1955 la follia nazista era passata da soli 10 anni e Resnais con la sua cinepresa si reca sui luoghi dove si sono consumati i massacri del genocidio degli ebrei. Luoghi che ancora non sono stati ripuliti e organizzati per accogliere turisti della memoria. Tra rovine, erba che copre luoghi, locali sudici e macchinari in decadenza si ricorda quello che avveniva in quei posti che potevano altrimenti essere luoghi di villeggiatura, normali campi da lavorare o normali prati. Avveniva lo sterminio di massa di un popolo, di gente raccolta in tutta Europa e uccisa solo perché apparteneva ad una razza. Una strage degli innocenti che Notte e nebbia, il documentario di poco più di 30 minuti Alain Resnais gira montando queste immagini con quelle che documentano le atrocità. Cadaveri ammassati e spostati con le ruspe, gente di meno di trenta chili costretta a lavori forzati, rinchiusi in massa in capannoni-camerate a lottare per non morire di fame, di freddo di malattia, attendendo la fine che se non arrivava per queste cause sarebbe poi arrivata nelle “docce” di gas, nei forni crematori. Un filmato che tutt’oggi fa venire i brividi, più atroce e “inguardabile” di tanti horror sanguinari creati per fiction e divertimento. Cosa vi è di più terribile della visione di corpi martoriati da scienziati folli (quelli veri non dei film di serie B) come erano i medici e gli infermieri nazisti o di vedere il materiale “residuo” immagazzinato e pronto per essere utilizzato per altri scopi: “I capelli delle donne costavano 15 centesimi al kg, se ne facevano tessuti; le ossa danno concime, un esperimento pare riuscito; con i corpi, quei corpi senza sangue e privi di grasso si faceva sapone; quanto alla pelle…” e seguono immagini di fogli di pelle umana che sostituisce la carta con disegni fatti probabilmente da bambini tedeschi. Un capolavoro che dovrebbe passare per televisione tutti gli anni nei giorni della memoria, senza indorare la pillola con fiction lacrimevoli su quei giorni. Questo era. Immagini secche e dure. Il monito finale del commento scritto da Jean Cayrol è di guardarsi attorno per vedere che accanto a noi non vi siano assassini sotto mentite spoglie pronti a ripetere quello che è successo. E mi pare che la guardia si stia abbassando… “(Resnais) scuote le coscienze con un documentario che sconvolge, per essere, nella sua scarna scrittura, la prima alta testimonianza sull’Olocausto, una <<esibizione>> pudica ma scioccante di materiale d’archivio d’inedita crudezza. Resnais continua ad alimentare la sua ostinazione classificatoria. Solo che questa volta non classifica libri o album illustrati. Classifica gli orrori della Storia” (voto 8) (*)
Ed è ancora la necessità della memoria ad interessare Resnais nel cortometraggio successivo, Toute la mémoire du monde (1956), qui si tratta delle parole tramandate e contenute nei libri, la conoscenza del mondo nell’utopica biblioteca infinita, la biblioteca di Babele narrata da Borges. Ma al regista qui interessa mostrare la fisicità dei libri in una delle fortezze in cui sono imprigionati, ovvero l’immensa Bibliothèque National de France a Parigi. Le carrellate dolenti che avevano accompagnato le immagini dei luoghi dell’Olocausto qui diventano lezione di stile girando per corridoi, arcate, scale, scaffali. Carrellate laterali, in avanti e indietro, in plongée dall’alto. La cinepresa non sta mai ferma riempiendo gli occhi di tomi, di lavoratori che catalogano, di tecnici che salvaguardano. Libri e libri, ma non solo, museo di memoria fatto anche di medaglie, monete, disegni di Durer, Mantegna, Rodon… La cultura di fa materia, la materia inerte diventa cinema e cinetica. E tra manoscritti rarissimi, pezzi unici e di valore inestimabile Resnais inserisce anche edizioni rare di fumetti, una strizzata d’occhio alla sua passione, la bande dessinée: “Noi avevamo filmato delle tavole di Dick Tracy e Mandrake il mago che avevamo introdotto alla Bibliothèque nationale, era forse una maniera di segnalare due volte, dato che stavamo trattando questo soggetto così austero e così angosciante di questi libri che una vita intera non ci avrebbe permesso di leggerli tutti, queste allusioni ad altri nomi mostrando che si poteva anche sorridere. Oggi, questi nomi sono diventati conosciuti, ma a quei tempi era una letteratura da catacombe.” (IV). E’ anche questo (tema presente in molte opere di Resnais) un film di fantasmi del passato, di rivitalizzare per un momento ciò che è morto, per ricordare. (voto 7)
E poi… la cinepresa di Resnais si sposta e si insinua all’interno di una fabbrica. “Che ambientazione fantastica sarebbe per un film mistery!”. Mentre si aggira all’interno tra macchinari, polvere, lastre di metallo, vapori e fumi, Resnais costruisce insieme ad André Heinrich, Remo Furlani e Chris Marker una specie di mockumentary collettivo costruito su una finzionale indagine da parte di un medico del lavoro sul motivo per cui uno degli operai non si sente bene. Le mystère de l’atelier quinze (1957) è un cortometraggio impostato come un detective-movie con tanto di finale alla Agatha Christie in cui tutti gli “indiziati” sono chiamati attorno ad un tavolo dove il medico rivela qual è il colpevole della malattia dell’operaio: una sostanza tossica prodotta dalla lavorazione che nessuno aveva individuato. E’ evidente che nel gioco di film di genere quel che si vuol sottolineare è il problema della salute nelle fabbriche insalubri e pericolose per chi ci lavora, argomenti che i cineasti svilupperanno un decennio dopo con i film verité del periodo del Sessantotto. Operazione curiosa che Arecco così commenta “l’operina scritta da Remo Forlani, venata di populismo e operaismo, sarebbe poca cosa, se non vi si interpolasse per la prima volta il racconto, e per di più il conte ironico e autoironico” (*) e quell’operaismo trattato come accezione negativa stride un po’… (voto 6)
Un breve film su commissione di 13 minuti diventa un’opera d’avanguardia, un documentario poetico in cui protagonista è la plastica, il polistirene e la sua lavorazione. Già il titolo è geniale Le chant du Styrène (1958) e dopo un’introduzione che ricorda le sperimentazioni da Leger e Brakhage, il film diventa un documentario sui generis con la macchina da presa che si rituffa all’interno di una fabbrica in cui le carrellate continue tra i macchinari (qui la presenza umana è residuale) diventano “inquadrature talmente legate fra di loro malgrado l’assenza di qualsiasi personaggio vivente (…) così armoniosamente saldate fra di loro da dare l’impressione fantastica di non essere che un solo lungo piano-sequenza, una sola magnifica carrellata, il cui prodicioso fraseggio evoca le grandi cantate di Johann Sebastian Bach” come scrive Jean Luc Godard in A ciascuno il suo Tours, in Il cinema è il cinema, Garzanti 1971. Il tutto con il commento di Raymond Queneau con voce fuori campo in alessandrini poetici tra l’ironico e il futurista. Qui Resnais fa le prime sperimentazioni sugli oggetti che gli serviranno lungo tutto il suo cinema: “L’ostinazione per le cose e questo gusto del collage indicano Resnais come un erede delle avanguardie poetiche della sua giovinezza (Breton, Ponge, Michaux), ma non è per il semplice gusto verso l’iperrealismo che si interessa a queste. <<forme informi>>. E’ anche perché la loro impurità gli permette anche di aggregarla a degli affetti” (V). E’ anche il film in cui abbandona il bianco e nero e i colori tenui (le riprese delle rovine dei campi di concentramento in Notte e nebbia) per sperimentare colorazioni più hard. (voto 6,5)
I corti di Alain Resnais si trovano facilmente su Youtube
*Sergio Arecco, Alain Resnais o la persistenza della memoria, Le Mani, 1997
**Jean-Loup Passek, Dictionnaire du cinéma, Larousse
*** Georges Sadoul, Storia del cinema Mondiale, Feltrinelli economica
IV) François Thomas, Trente ans avec Alain Resnais Entretiens, Les Impressions Nouvelles, 2022
V) Joachim Lepastier, A la taille de l’amour, Cahiers du cinema Aprile 2014