George Segal interpreta Quiller il “solito” agente Segreto Britannico che questa volta deve scoprire un complotto neonazista in Germania a cui capo vi è Max Von Sydow. Il nostro vi si avvicina con l’aiuto di Senta Berger, insegnante tedesca, con cui ha rapporti al di là del professionale. Quiller viene catturato, torturato, inseguito, creduto morto e, infine, riesce a sgominare il covo per la gioia del superiore Alec Guinness. Non senza un finale a sorpresa… Sceneggiatura di Harold Pinter e regia di Michael Anderson che negli anni Sessanta nel genere si dilettava. Film del 1966 di realizzazione piuttosto standard e semplice, da Pinter ci si aspettava qualcosa di più articolato mentre da Segal (che non ha il carisma di altri interpreti del genere) e da Michael Anderson, no. Il regista riesce a colpirci solo in alcune sequenze nel sottofinale, sporche e “d’attesa” come si deve. Forse, però, nella sceneggiatura, vedendo il film oggi quando il neonazismo è pratica quasi comune, bisognerebbe cogliere quella visione profetica che, vedendolo nel 1966 dove più che altro gli spionistici si occupavano di guerra fredda e quindi opposizione Usa-Urss, Pinter ha messo nel film. Questo deduco dalla recensione del tempo di Tullio Kezich (a mio parere anche un po’ condizionato dal suo amore per il teatro a cui Pinter ha dato opere straordinarie): “L’agente Quiller si distingue dalle altre spie e controspie di un filone inflazionatissimo: nella sua avventura, ambientata come d’uso a Berlino, è facile scoprire una gustosa propensione al nonsense. (…) Pinter sembra aver trovato nel gioco delle spie una raffigurazione del suo mondo tutto fatto di valori intercambiabili, di segni rovesciati, di ipotesi contraddittorie; solo che in Quiller Memorandum affiora, al di là del divertimento intellettualistico, una tremenda constatazione che speriamo soltanto fantapolitica. (…) Peccato che la realizzazione del film, ispirata ai canoni dello spionismo di vecchia maniera, non stia dietro alla qualità dell’ordito letterario.” (voto 6-) Air France ad inizio film inaugura il product placement che vede protagonista soprattutto il Jack Daniels ma anche Coca Cola e, in pubblicità, Schultheiss beer.
Quarto protocollo (1987) girato vent’anni dopo, sembra invece, a guardarlo, precedente a Quiller… per il ritorno alla guerra fredda, alla bomba atomica e a… Michael Caine sempre ironico e iconico. John Mackenzie ha voluto riproporre il genere “comme il faut” tornando ai film che evidentemente ha amato e studiato. L’agente britannico John Preston, in contrasto con il capo dell’agenzia, arrivista e ottuso, dopo aver completato una missione, viene accantonato e messo a guardia di porti e aeroporti. Nonostante il suo “demansionamento” scopre, grazie al suo acume, che agenti russi stanno meditando di costruire e far scoppiare una bomba atomica nella terra di sua Maestà la Regina. L’agente in questione è Pierce Brosnan che fa le prove per diventare lui stesso un agente britannico e 007 cominciando “dalla parte opposta”, ovvero interpretando una spia russa. A lui si unisce la “compagna” Irina (Joanna Cassidy in gran forma). Dietro di loro, entrambi sacrificabili, il capo del KGB che sta progettando l’operazione all’insaputa del resto dell’agenzia di spionaggio russo. Omicidi, tradimenti e suspence. Tutto quello che ci vuole. Quello che io ho trovato essere un omaggio al cinema spionistico anni Sessanta, per il Mereghetti è “una storia di spionaggio stiracchiata e piena di situazioni e personaggi già visti, non ultimo Caine nella parte dell’agente segreto indisciplinato ma efficace” ma forse il problema è che Frederick Forsyth non è John Le Carré come afferma (giustamente) Adriano Aiello su Film Tv n. 7 del 2015. (voto 6) Come solitamente accade nei film del genere spionistico sono le auto (Ford, Mercedes), le moto (Bmw) e i camion (Volvo) a fornire il product placement del film. Qui vi sono anche la Budweiser e la Nikon.
Tra un James Bond e l’altro, Pierce Brosnan interpreta l’agente del MI6 inglese Andrew “Andy” Osnard, versione immorale, avida e degenerata di 007. In Il sarto di Panama (2001), tratto da un romanzo del 1996 di John Le Carré, il nostro viene mandato per “punizione” ad organizzare una rete spionistica per tenere sotto controllo il passaggio (che doveva avvenire, come è avvenuto, nel 1999) dal protettorato americano al governo panamense del canale di Panama. Per far questo individua un sarto pieno di debiti ma molto conosciuto nel mondo politico panamense (era anche il sarto personale di Noriega) di nome Harry (un sempre strepitoso Geoffrey Rush). Chiede all’uomo di diventare una spia al suo servizio in cambio di ventimila dollari, la somma che gli servirebbe per appianare i debiti. Questo si inventa alcune notizie su un complotto di un’opposizione silenziosa contro il governo di Delgado, notizie cavalcate da Osnard per poter mettere le mani su 15 milioni di dollari improvvidamente messi a disposizione dagli americani per tenersi il canale. Questo piano causa un caos politico militare che coinvolge la moglie di Harry, segretaria di Delgado, interpretata da Jamie Lee Curtis, un vecchio oppositore di Noriega amico del sarto, Mickie (Brendan Gleeson qui trasformato in trasandato ubriacone) e una vittima di scagnozzi del dittatore, la sfigurata ma sempre bella Marta (Leonor Varela). Il veterano John Boorman si diverte ad utilizzare il figlio di buona donna che è il personaggio di Brosnan per fare satira politica trasformando il film di spionaggio in un grottesco affresco di inettitudine e cecità violenta della politica e dei militari americani che ci porta dalle parti de Il dottor Stranamore. “Spy-story anomala (…) si fa satira al vetriolo sui “falchi” dell’US Army, sulla politica di Londra subalterna a quella di Washington, sulla credulità e l’ignoranza rapace dei diplomatici, sulla disinformazione generale. Il nucleo del film, però, è nel rapporto tra i due protagonisti che impersonano due visioni del mondo: materialismo contro sensibilità” (Morandini) (voto 6,5) La compagnia aerea panamense Copa Airlines appare più volte nel film ed è certo product placement ma nel film troviamo anche Toyota, Land Rover e una citazione di Armani.
Sempre da John Le Carré è La talpa del 2011 con protagonista il personaggio più famoso dello scrittore, George Smiley, agente del MI6 inglese, qui interpretato da un compassato, sornione ma tenace Gary Oldman. Il film è tratto dallo stesso romanzo da cui nacque la miniserie omonima del 1979 con Alec Guinness ad incarnarlo. In effetti far stare tutto il complicatissimo intreccio in un lungometraggio di poco più di due ore non è semplice e si rischia di perdercisi. Ma Tomas Alfredson (il regista svedese di Lasciami entrare del 2008) è abile a non far smarrire il filo della narrazione nonostante i molti personaggi e le sottotrame senza mai accelerare troppo e senza mai, comunque, annoiare per staticità verbosa. La trama fondamentalmente è quella della ricerca di una talpa nelle alte sfere dell’agenzia che lavora per i russi (siamo in piena guerra fredda) e quindi è uno spionistico con sfumature da giallo con omicidi, personaggi ambigui e la flemmaticità alla Maigret di Smiley sopra tutto. Ma il punto forte del film è l’attenzione che il regista presta al lato umano delle spie con inganni dalle amicizie, difficoltà di rapporti umani, malinconia per la perdita del compagno o della compagna (sia questo per tradimenti studiati, sia per non mettere in pericolo la persona amata), rassegnazione ad un destino incerto. “Tomas Alfredson ne suggella l’immaginario con un’elegia immobile ed elegante, dove i fatti (politici e non) e le indagini di Smiley passano in secondo piano di fronte ai gesti e ai volti” scrive Adriano Aiello su Film tv n. 7 anno 23 del 2015. Notevole e azzeccato il parco attori tra cui troviamo volti stranoti come John Hurt, Mark Strong, Toby Jones, Ciaran Hinds, Colin Firth, Benedict Cumberbatch e il già citato protagonista Gary Oldman. (voto 7) Csillar Lampa a Budapest, Bell’s scotch whiskey, Steenbeck per montaggio immagini, Wimpy e Rover il product placement notato nel film.