Rabah Ameur-Zaimeche, classe 1968, è cresciuto da figlio di immigrati nella periferia di Parigi, e non se ne è mai dimenticato nei suoi sette film, neppure quando ha messo in scena una sua del tutto personale storia di Giuda utilizzando uno sguardo pasoliniano. Un cantore dei quartieri dimenticati, degli immigrati di seconda e terza generazione, degli operai e di chi si arrangia anche oltre i limiti della legge per sopravvivere. Il suo cinema è sempre tra genere (svariati) e documento e, purtroppo, in Italia non arriva se non in qualche festival. Le gang des bois du Temple (2022) è stato girato nella periferia di Bordeaux e in quella di Marsiglia, ma potrebbe esser stato girato in una qualsiasi delle grandi città francesi. Inquadratura panoramica di casermoni abitativi che denotano squallore e povertà ma che poi alla notte diventano scintillanti insiemi di luci rendendo il tutto magico. Un modo per mostrare come qualsiasi cosa debba esser vista da tutti i lati. Ciò che sembra brutto da una parte, dall’altra ha una sua bellezza. Il film si apre sulla morte della Signora Pons, una madre “collettiva” per tutti i ragazzi del quartiere. Il Signor Pons è un ex-militare anziano, vera istituzione del quartiere, colui a cui un po’ tutti guardano come figura di riferimento, “paterna”. Alcuni abitanti del quartiere decidono di rapinare un principe arabo che ostenta lusso e ricchezza, superiorità e potere. Durante il furto, oltre ai soldi viene rubata anche una valigetta con documenti che il principe vuole avere e, senza dire una parola, incarica un detective privato e i suoi uomini per rintracciare chi ha commesso il furto. Non avrà pietà per loro, ma non ha fatto i conti con il Signor Pons. Il film è un noir che guarda dichiaratamente a Melville, lo modernizza con sparatorie drammatiche alla Olivier Marchal, ma con uno sguardo umanitario di piccole storie di banlieu che ritroviamo nei film di Guediguian. Il regista riesce a far poesia visiva su una traccia fondamentalmente poliziesca e, come afferCma in un’intervista dopo il film, quella fotografia drammatica, quel modo di rappresentare la vita umana, quei ricordi di amicizia e fratellanza del quartiere che appartengono in qualche modo anche al suo passato, sono più importanti e trascendono il genere. (voto 7) Abbondante il product placement presente, molte le auto (Opel Vivaro, Maserati, Bmw, Renault Clio) ma anche le marche come la Apple (Mac), Pirelli e Adidas.
Il film che Francesca Comencini ha dedicato a suo padre, Il tempo che ci vuole (2024) è un film fatto di scelte giuste. E’ giusta la scelta di dedicare buona parte della parte dedicata all’infanzia al meraviglioso che il padre le ha fatto conoscere nonostante lei abbia paura e quelle sequenze sul set del Pinocchio sono emozionanti anche perché riportano ad un’epoca, ad un periodo storico italiano che poi viene ampliato con le notizie e le angosce ben più drammatiche degli anni di piombo. Anni di piombo in cui la giovane Francesca cresce tra rivolta, ricerca di una strada che non trova e il tunnel della droga. Scelta giusta anche quella di mostrare la sofferenza della dipendenza dalla parte del rapporto con il padre. E’ giusta la scelta anche di ricordare la passione di Comencini per il cinema muto di cui è stato anche salvatore durante la guerra e a cui ha reso omaggio con La valigia dei sogni (1953), e quindi apprezzabili sia i filmati d’archivio che gli sprazzi di video arte con la sovrapposizione di parti “disegnate” in alcune sequenze. Come ci è parsa giusta anche la scelta di “ritagliare” il rapporto padre-figlia da tutto il resto del contesto come se dalle immagini fossero fatte sparire le presenze di madre e sorelle, come quando da una foto collettiva si profila solo la parte che interessa. Tutto ciò ha evitato di cadere nella trappola, di cui lei era assolutamente conscia visto che ricorda quando il padre le ha detto di non fare film troppo personali, il cinema serve per sognare bacchettandola sul suo esordio, Pianoforte (1984), in cui racconta la sua esperienza con la dipendenza, rifiutandosi di andarlo a vedere. Non che il film sia privo di difetti, ad esempio quando la Comencini tenta di fare Fellini (episodio della balena, volo finale) ne sembra una copia sbiadita, al massimo ricorda il Fellini disegnatore non certo il regista; oppure il soffermarsi sulla malattia, alcuni tentennamenti verso il patetico, ma comunque il film, per i motivi che ho detto, resta decisamente interessante. (voto 6+)
Una “sana cattiveria” è un modo di dire che in Kontrabida Academy (2025), produzione Netflix diretta da Chris Martinez, trova la giusta collocazione. Una ragazza, Gigi (Barbie Forteza), laureata e intelligente, vede piano piano la sua vita crollare. Lavora come manager in un ristorante di cucina coreana dove però il capo la costringe a fare la cameriera, ha un fidanzato che la tradisce e una madre “disgraziata” che sperpera denaro ed è indebitata fino al collo. Un giorno vince un televisore che trasmette solo una serie tv, La legge degli oppressi in cui si racconta la storia di una Cenerentola vessata dalla matrigna e dalla sorellastra. Dalla serie tv l’attrice che interpreta la matrigna cattivissima si mette in comunicazione con Gigi e la trascina con sé all’interno del mondo televisivo attraverso lo schermo. Qui la convince ad iscriversi alla Kontrabida Academy (l’accademia dei farabutti o dei cattivi) in cui le insegnano a ribellarsi con la cattiveria trasformandosi in una bad girl. Grazie agli insegnamenti si trasforma in Gia (perché i nomi di donna che finiscono per “a” fanno più “donna crudele”) e si vendica del direttore del ristorante, del compagno e della madre. Poi però, avendo fondamentalmente in sé la bontà di Gigi, mette in crisi l’Academy e la serie tv dimostrando che in tutti gli uomini vi sono parti cattive e buone. Un filmetto, anche curioso, che utilizzando metacinema e reminiscenze di Woody Allen molto alla buona, giunge ad un finale ultraconsolatorio in cui si esalta la buona vita normale, sedersi sul divano mangiando pop corn e guardando serie televisive (Netflix non solo è citato ma questo finale è tutto costruito per convincere della bontà della vita davanti alla tv). (voto 5,5). Vengono citate varie firme di moda (perché la madre di Gigi compra oggetti contraffatti) come Balenciaga, Jimmy Choo, Bulgari. Anche auto Bmw nel product placement.