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CINEMA
19 Maggio 2025 - 22:32

DIARIO VISIVO (Nei meandri dello streaming)

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Woman of the hour; Enys men; Darkness of a man; Il libro delle soluzioni
DIARIO VISIVO (Nei meandri dello streaming)

Su Netflix potete trovare un film curioso ancorchè insoluto. Woman of the hour (2023) ha il tipico stile rarefatto e spezzato di alcune opere dei Coen e di altri autori del neonoir. La regista Anna Kendrick, esordiente dietro la videocamera, si ritaglia anche un ruolo da protagonista (è infatti principalmente un’attrice, per altro decisamente interessante con un viso suggestivo, enigmatico) per raccontare la storia vera di un serial killer che partecipò al programma televisivo The dating game con una certa faccia tosta. Pare che venne riconosciuto ma nessuno ascoltò la ragazza che lo aveva visto assieme ad una sua amica assassinata. La trama non ha un filo continuo e non è neppure una sequenza di omicidi. Non è un horror ma un film d’atmosfera, che crea inquietudine con il mostrato/non mostrato, con il contesto paesaggistico semidesertico, con il faccione amichevole ed agghiacciante allo stesso tempo dell’attore Daniel Zovatto, con gli sbalzi temporali non sequenziali. La sequenza clou è quella che mostra il gioco televisivo con la boria del presentatore, la falsità delle situazioni, il gioco dialettico tra Sheryl (attrice in cerca di notorietà e per questo partecipante al programma) e i tre uomini tra cui dovrebbe scegliere un compagno. Qui la Kendrick è ottima mattatrice e ridicolizza i comprimari maschili tra cui spicca, però, proprio il serial killer-ammaliatore. Qui il film dà il suo meglio mettendo in evidenza il sottile confine tra indipendenza e forza femminile e fragilità sempre a rischio di essere manipolata. Ma il tutto senza aver ambizioni di saggio o di dimostrazione. Resta sempre un “tono sotto” e per questo ammalia anche se lascia un che di inconcluso. (voto 6,5)

Altro film “sospeso” in un’atmosfera rarefatta, lenta, silenziosa, nella natura di bellezza ruvida, è il curioso e sperimentale Enys men (2022) di Mark Jenkin. Un’isoletta al largo della Cornovaglia (in realtà il film è girato nei dintorni della dimora di Mark Jenkin e della compagna Mary Woodvine, protagonista del film di cui Jenkin è regista, sceneggiatore, direttore della fotografia, montatore e compositore! Un film decisamente “fatto in casa”) vive ormai da un periodo piuttosto lungo, nei primi mesi del 1973, una volontaria che deve monitorare l’evoluzione di alcuni fiori rari che si trovano sul crinale delle rocciose coste inglesi. Qui, nel suo peregrinare solitario (l’unico suo aggancio con il mondo esterno è un vecchio impianto radio della Dansette, mitica marca vintage inglese con cui negli anni ’60 si ascoltavano i Beatles e le altre star della musica inglese) comincia ad interagire con presenze fantasmatiche. Incontra le presenze di pescatori naufragi, di minatori ottocenteschi, di una ragazza suicida, di donne con costumi tradizionali sempre del XIX secolo. Quali siano ricordi e quali fantasmi proiettati dall’isola non è dato sapere (e non interessa particolarmente). Chiaro riferimento per Jenkin è il folk horror inglese e il cinema in pellicola, quello più aspro e sgranato del 16 mm. “(Il folk horror ndr) è un sottogenere internazionale, ma per me, è tipicamente britannico. Molti cineasti del Regno Unito anno cercato di ritrovare e di reinventare il folklore della vecchia Inghilterra pastorale, grattando sotto la superficie delle cose.” (*) Ma Enys men è anche un film sul tempo, sul ricordo, sia questo vissuto o storicamente immaginato. “E’ la mia grande ossessione. La nozione di tempo è una costruzione umana, che ci causa tanti problemi. Noi possiamo essere tormentati dal passato, dai rimpianti, o essere ansiosi verso il futuro. Fortunatamente, il cinema è stato inventato per rappresentare il tempo sullo schermo, e dargli un senso (…) lavoriamo su frammenti di ricordi, che è il modo in cui in cui il cinema funziona” (*) (voto 6+) A parte l’apparizione vintage della Dansette, potrebbero essere product placement il Seven Maids Milk o il lattone della Esso.

(*) Intervista a Mark Jenkin raccolta da Gilles Esposito per Mad Movies (trad. mia).

“Sono un vago riflesso di ciò che ero un tempo, un ricordo lontano, un eco nel vento, eppure non posso sfuggire alla mia natura”, Russell Hatch, ex-poliziotto e ora “vecchio alcolizzato e patetico bastardo” che ha come unico scopo portare sulla retta via un ragazzino di origini sudcoreane, Jayden, figlio di una donna che ha amato e che la mafia coreana o quella russa di Los Angeles ha ucciso. Hatch non potrà cavarsela appartandosi e facendo da padre putativo del ragazzino affogando dispiaceri e ricordi nell’alcool, dovrà rimettersi in gioco per difenderlo da spietati assassini che lo vogliono coinvolgere nel traffico di droga. Darkness of man (2024) è un noir che vorrebbe puntare in alto con una voce interiore del protagonista tra Chandler e Hammet che scade spesso nel poetico da cartolina. Vi è poi la parte action lasciata in mano ad un Van Damme che con gli anni si è trasformato in una specie di Cocciante con i capelli corti… Insomma un prodotto di quelli che una volta trovavi in vhs nei cassoni del supermercato e ora riempiono i buchi delle piattaforme di streaming, in questo caso Prime. Lo spiego con le parole di San Helving (Mad Movies) che sono sempre un godimento: “James Cullen Bressack, autore di cinema di serie B da fondo di catalogo, la cui filmografia fa da contenitore per compost per glorie appassite. Dopo Bruce Willis, Mel Gibson e il famigerato Steven Seagal, James aggiunge Jean-Claude al suo carnet di caccia (…) Van Damme torna ai suoi ruoli degli anni 2000 con faccia lunga due metri e difficoltà ad alzare la gamba. Da monologhi interiori passabili a spedizioni punitive montate col culo e illuminate con l’uretra, Jean-Claude tenta di elevare ciò che può. Don Chisciotte eterno dei nostri cuori danneggiati dagli eccessi di serie da C a Z.” (voto 5) Product placement: Hotel Palm Tree Inn, birra Beck, Toki Soju e Braun.

Guardando la filmografia di Michel Gondry si rischia di perdercisi dentro. Tra video, corti, pubblicità, film visionari e film sbagliati, il regista è sempre in iperattività e questa schizofrenia artistica probabilmente fa parte del suo bagaglio personale. Gondry probabilmente è come i suoi film, sempre in overload e a rischio di blocco del sistema. Lo stesso Gondry crea un alter ego per farci vedere questo Michel uomo e regista. Si ferma un attimo e crea il suo 8 ½ che è stato presentato alla Quinzaine di Cannes nel 2023, Il libro delle soluzioni. In scena abbiamo un regista di nome Marc (Pierre Niney) a cui stanno comunicando che il film che ha appena girato (e che il suo amico produttore disconosce) è un totale fallimento e che i finanziatori hanno buttato via 5 milioni. Marc allora attua il “piano B”, parte con montatrice e segretaria di produzione in campagna dalla zia Denise (Francoise Lebrun, la nouvelle vague che dà rifugio alla modernità quando gira su se stessa) per finire il film come vuole lui contro tutti. Qui smette di prendere le sue pillole che lo tengono tranquillo e va in fibrillazione. Diventa scontroso, intrattabile ma anche pieno di idee e non riesce a star fermo. Costruisce sedie, macchinari, acquista un rudere per farne il suo studio, riesce a convincere Sting a creare un pezzo per la colonna sonora, si inventa un cartone animato, un documentario su una formica, comincia a scrivere un libro dove pontifica su soluzioni cinematografiche ed esistenziali, si innamora di una donna con una “cicatrice esteriore”. Nevrotico e creativo finirà per avere successo ma letteralmente sprofonderà nella sedia del cinema. Il film è frammentario ma divertentissimo, invecchiando Gondry pare aver acquisito autoironia e a fregarsene della perfezione. Si mette a nudo come lo fa da sempre Woody Allen ma con spirito indie. Surreale e bizzarro, egocentrico e irrisoluto. Un “filmetto” con tante idee spudorate dentro, d’altronde è proprio lui che ha detto “Ogni grande idea è sul limite dell’essere stupida”. (voto 6/7). Nel film vediamo spesso uno Sharpie all’opera tra le mani di Marc, i computer sono due, un Mac e un Acer, così come le auto, una Renault e una Peugeot. Vi è anche un I-Phone. Penso però che l’unico vero product placement sia la società di noleggio auto Enterprise.

Stefano Barbacini

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