Maud (Morfydd Clark, Il Signore degli Anelli - Gli Anelli del Potere) è una giovane infermiera privata, animata da un’incrollabile fede appena scoperta. Trova lavoro presso Amanda (Jennifer Ehle, Il discorso del re), ex ballerina di successo segnata da un cancro in stato avanzato. Maud si trova a prendersi cura di una persona in preda ai demoni del passato, sprofondata nell’abuso di alcol e sigarette. Come se non bastasse, porta avanti una relazione poco chiara con un’altra donna, Carol (Lily Frazer, Motherland). Maud, che intrattiene spesso e volentieri dialoghi con Dio –senza mai ricevere risposta- capisce che la sua missione non è prendersi cura del corpo malato di Amanda, ma della sua anima. Fra le due si instaura una relazione profonda e permeata dalla spiritualità, fino ad una rottura che segnerà un punto di non ritorno per entrambe.
Rose Glass, qui al suo debutto, inscena una storia alienante, in cui la solitudine e l’incomprensione di sé stessa portano la protagonista ad imporsi soluzioni non adatte ai propri problemi, il tutto nella disperata speranza di poter trovare una via di fuga. Il cristianesimo che Maud incarna non è altro che una religione creata da lei stessa per sè stessa, piegata al proprio volere per poter ricevere un’approvazione sul suo operato. Ed è dal passato che Maud tenta di scappare, imponendosi una vita opposta a quella vissuta fino ad ora. Se la vecchia Maud era dedita ai vizi della carne, ora aberra ogni minima deviazione dalla legge di Dio. Il fanatismo di Maud la porta a sentire la presenza del divino, la quale le provoca estasi ben più simili ad orgasmi del tutto associabili a riti pagani. La giovane arriva ad avere allucinazioni e a sacrificare il proprio corpo attraverso atti di penitenza. A tal proposito, l’intuizione dei chiodi nelle scarpe è tanto macabra quanto geniale. Tutto questo porta Maud alla perdita della propria umanità: abbandona ogni senso di empatia verso il prossimo, pur credendo di seguire il volere del Signore.
Se Maud rappresenta il rifiuto totale del corpo in favore dell’anima, Amanda è il tripudio di un materialismo carnale. Deve il proprio successo al corpo, ed è il corpo a trascinarla verso la morte. Nonostante questo la sua risposta non è di tipo religioso –nonostante ne senta la mancanza e provi a seguire i consigli di Maud-, ma, al contrario, vuole bearsi di tutto ciò che è lascivo e da ebbrezza.
Dal punto di vista tecnico la Glass opta per una regia soffocante, di cui Maud è l’assoluta protagonista. Inquadrature sghembe che storpiano le proporzioni, primi piani e l’utilizzo della macchina da presa tenuta a mano non fanno altro che esaltare un’atmosfera nevrotica, pronta ad esplodere da un momento all’altro insieme alla fragilissima mente della ragazza. Una colonna sonora altrettanto ossessiva ed una fotografia spenta che si esalta soltanto in presenza di Amanda rafforzano il vortice di follia in cui Maud sta cadendo.
Glass ha dichiarato di essersi ispirata a Repulsione e Rosemary’s Baby di Polanski. La solitudine e la lenta degenerazione della psiche sono temi fondamentali delle pellicole del regista polacco (Maud è per certi versi simile a Carole, protagonista di Repulsione). Anche Taxi Driver di Martin Scorsese è fra i punti di riferimento della regista. La città di Maud, seppur con un ruolo marginale rispetto alla magnifica –nel suo essere decadente- New York tratteggiata da Scorsese, è un labirinto di depravazione e dissoluzione proprio come le strade percorse dal nevrotico Travis. Da segnalare il locale Coney Island (quartiere newyorkese) e la citazione alla scena del bicchiere d’acqua con l’aspirina, a sua volta preso da Due o tre cose che so di lei di Godard. Personalmente ho visto in Maud moltissimo del Silas di Paul Bettany ne Il codice Da Vinci diretto da Ron Howard.
Sul lato interpretativo sia Clark che Ehle offrono due solidissime prove.
Concludendo, Saint Maud è certamente un ottimo debutto. Le tematiche affrontate sono ben definite, ma, al tempo stesso, non banali. Glass offre una visione chiara di una vicenda oscura, dominando con mano ferma possibili scivoloni su cliché già visti, realizzando così una pellicola tanto gradevole quanto disturbante.