Quando ormai riuscire a mettere insieme i finanziamenti per i suoi film, Orson Welles comincia a riflettere sul cinema, sul suo cinema e sulla figura del regista, illusionista, mago e creatore di illusioni. Lo fa particolarmente con F for fake (1973), opera composta principalmente di immagini d’archivio, reel non utilizzati in altri film e poche immagini realmente girate da Welles che nel film fa da anfitrione e voce-saggio. “Welles, che quando aveva i soldi faceva i piani sequenza, ora che è povero fa controcampi continentali: uno spalto a Venezia e una sauna in Marocco perché non sono arrivati i costumi, e non sapendo dove mettere i suoi attori li mette in un bagno turco con un lenzuolo addosso” scrive Tatti Sanguineti in postfazione al libro A pranzo con Orson (a cura di Peter Biskind, Adelphi, Traduzione di Mariagrazia Gini). Il critico sta parlando del girato di Othello e F for fake è praticamente un testo critico, alla Godard, di quello e degli altri lavori di Welles. La prima parte con le analisi delle azioni di due falsari, Elmyr de Hory, che riproduceva quadri degli impressionisti e li vendeva come originali, e Clifford Irving, autore di una biografia inventata di Howard Hughes e dello stesso de Hory (e il cerchio si chiude, un falso biografo che scrive di un falsario di quadri), è girata in questo modo. De Hory e Irving interloquiscono tra loro, con il regista, con i giornalisti e con le istituzioni in campi e controcampi che non sono reali. Allora la considerazione di Welles è: ma è veramente importante che quel quadro, quel libro, quel film (tutti i registi per definizione sono falsari, ricreano e artefanno la realtà, anche i documentaristi più rigorosi; forse l’unico film veramente “realistico” sono le riprese dell’Empire State Building di Andy Wahrol…) raccontino la verità, siano originali, o conta il fatto che producono bellezza? Ha importanza che chi parla abbia per controcampo un attore dall’altra parte del mondo se il dialogo e le immagini funzionano? La seconda parte del docu-fiction di Welles è sulla stessa lunghezza d’onda, qui si immagina un’interlocuzione mai avvenuta tra Picasso e Oja Kodar, modella e compagna di Welles. Ma non è realistico che Picasso possa aver ammirato e avuto voglia di disegnare la bellezza della Kodar? Non è questo che conta? Ma è un film-confessione? Nel libro già citato A pranzo con Orson, Welles risponde: “Niente affatto. E’ una confessione falsa. Non sto confessando nulla. La mia confessione di essere un truffatore è truffa. E’ una manipolazione, fatta apposta. Ma no: penso di essere assolutamente sincero… bugia. Io non dico mai la verità” e il gioco continua… (voto 6,5) Nei vari filmati di archivio appaiono McDonald’s e altre brand che però non penso possano esser considerati product placement.
Mi è passato sotto mano Le due sorelle di Brian De Palma del 1972 e l’ho riguardato (la prima ed unica visione penso sia avvenuta una quarantina di anni fa…). Mi ricordavo l’assunto hitchcockiano (ma parlare di Hitchcock davanti ad un’opera di De Palma ormai è una tautologia) e la presenza magnetica della splendida Margot Kidder ma oggi ne riscopro anche l’evidente debito con il thriller psicologico italiano. Tutta la seconda parte del film, quella piuttosto sconclusionata ma visivamente interessante (le inquadrature a tre personaggi, la Kidder, il marito e Jennifer Salt quando il terzo elemento non è sostituito da un coltellaccio, mi hanno dilettato non poco) della casa-manicomio con la seduta di ipnotismo potrebbe appartenere ad uno dei nostri magnifici registi di serie b nostrana. De Palma è la versione “volgare” e voyeuristicamente più spinta di Hitchcock (e lo stesso regista si “autodenuncia” per questo nell’incipit del film). La storia delle due gemelle siamesi Danielle e Dominique, dell’omicidio di un ragazzo di colore perché una delle due non è riuscita a prendere le pillole, dell’intervento della curiosa e impicciona testimone del delitto, la giornalista Grace (altra cosa che non ricordavo è quanto altrettanto magnifica fosse anche Jennifer Salt, non solo la Kidder, in questo film), dell’investigatore sui generis interpretato da Charles Durning e del finale in cui si cerca di far passare per pazza Grace, si tiene assieme con difficoltà logica (ma non era così anche per i capolavori di Argento?) ma a De Palma interessa poco. E’ la sua urgenza di mostrare, di creare tensione con le immagini, di inventare cinema tramite artifici tecnici (ad esempio il curioso utilizzo dello split screen): “Suspence. In Le due sorelle la sincronia tra quadro destro e sinistro produce thrilling (…) In questo caso, lo split-screen sostituisce il montaggio alternato come figura retorica della sincronia” scrive Giulio Sangiorgio in Vedere doppio sul libretto dedicato dal TFF35 a Brian De Palma edito da Il castoro. Sul doppio, sempre sullo stesso libretto a cura di Emanuela Martini per la retrospettiva sul regista, Federico Pedroni (Split movies. Ipotesi di sdoppiamento nel cinema di Brian De Palma) scrive: “Il gioco di rimandi (…) non riguarderà solamente l’evidente doppio delle gemelle, ma anche le corrispondenze involontarie tra l’assassina e la donna che cerca di smascherarla, in un gioco di opposizioni e contrapposizioni che dà le vertigini perché la giornalista-voyeur, come scrive Leslie Fiedler, <<cercando di scoprire quale delle due sorelle divise è colpevole di omicidio, si accorge non solo che sono ancora una cosa sola, ma che lei, nell’osservarle, è diventata tutt’una con loro>>”. (la citazione viene da Freaks. Miti e immagini dell’io segreto, Il Saggiatore, Milano, 2009). “Doppio e doppio del doppio, dunque: struttura in abisso. Se l’integrità dell’immagine filmica è una garanzia tradizionale dell’<<illusione di realtà>>, il regista denuncia deliberatamente tale equivoco.” (Roberto Nepoti, Brian De Palma, Il Castoro). Brian De Palma dichiara sul film Le due sorelle (dal già citato catalogo del TFF35): “Mi piace soprattutto sorprendere il pubblico. Dargli la sensazione di trovarsi su un terreno familiare e poi, brutalmente, senza preavviso, violentarlo. Lo spettatore non deve tornarsene a casa confortato, rasserenato. La vita non è così. L’inconscio è sempre là, che attende di manifestarsi, anche quando crediamo che la logica abbia risolto ogni cosa.” “De Palma è oggi il cineasta che meglio padroneggia la tecnica e il rito della scuola hitchcockiana. Dietro questa scelta, che potrebbe essere soltanto formale, si avvertono un’attenzione ai temi psicologici e una particolare sensibilità al motivo della schizofrenia che probabilmente sono tipici di molti film dell’autore” (Tullio Kezich, I Millefilm) (voto 6/7). Coca Cola, Life e Superette sono i marchi più noti nel product placement del film che per il resto si limita a ditte meno note e locali come Global traslochi, Russo’s Burger, Rea Express.
In Chiamata per il morto (1967) Sidney Lumet non è particolarmente interessato alla trama giallo-spionistica, con tutti di doppigiochi e i misteri al punto giusto come vuole Le Carré (da cui il film è tratto), ma principalmente al rapporto tra il protagonista, Charles Dobbs (James Mason) e la moglie ninfomane e pluri-adultera Ann (Harriet Andersson). Quella è la parte più curata e che crea le sensazioni più forti per lo spettatore con la giusta dose di oscure pulsioni sessuali, depravazione “controllata”, gioco dei sentimenti. Non per nulla probabilmente Lumet ha chiamato la Andersson a dare tocco bergmaniano al tutto (la Andersson era una grandissima attrice sia detto senza remore). Anche il focus visivo è tutto incentrato sui primi piani che sono sparati in fronte al pubblico, quasi esagerati (ancora Bergman?). Il resto, la suspense creata con l’indagine di Dobbs (probabilmente Lumet ha cambiato a bella posta il nome del protagonista che nel romanzo è Smiley per distanziarsi da quello) insieme al poliziotto in pensione Mendel (con la faccia da bruto di Harry Andrews) sul presunto suicidio dell’agente dello spionaggio Samuel Fennan, che pare essere un omicidio e che coinvolge il controspionaggio di cui fa parte Dobbs e doppiogiochisti al soldo dei russi, è condotto professionalmente, in maniera suggestiva ma piatta, come la fotografia del film, bella, volutamente “sporca”, ma monocorde. Come comprimari la grande Simone Signoret con il suo ambiguo e triste aplomb, il solitamente viscido e unto Roy Kinnear e un Maximilian Schell invece un po’ fuori parte. In generale i critici che hanno adorato il romanzo di Le Carré, hanno odiato la scelta di Lumet di accentrare il rapporto famigliare Mason/Andersson: il solito problema di non voler valutare il film in modo a sé stante senza collegarlo al romanzo. I critici di lingua inglese Maltin (“spionistico di primordine”) e Hallywell (“Thriller compulsivo diretto in modo pesante dell’era degli amari film di spionaggio, deliberatamente triste, fotografato contro i più squallidi scenari londinesi con colori fangosi. Solido intrattenimento per adulti sofisticati”) mi sembra lo abbiano giudicato più come opera indipendente dal testo di Le Carré. (voto 6+) Importante per la trama la presenza delle macchine da scrivere Olivetti, ma il product placement è abbondante anche per altre marche: Kellogg’s, Dodge, Mercedes Benz, Bell’s Whisky, Red Barrel, Persil, Swissair e Daily Telegraph.
Leggo su Positif 751 una lettera di Dirk Bogarde a Bertrand Tavernier, contenuta nel libro Ever, Dirk: The Bogard letters, John Coldstream (dir.), Weidenfeld and Nicolson, Londra, 2008. Tradotta dall’inglese da Christian Viviani (e dal francese da me). “Nunnally Johnson era un uomo squisito: io l’adoravo. Abbiamo fatto un film orribile (che lui aveva ben scritto ma che non è stato capace di dirigere) a Roma e nel sud della Calabria…”. Bogarde sta parlando del film La sposa bella (1960) di Nunnally Johnson che naturalmente sono andato a recuperare (la mia cinefagia è un po’ masochista…) in effetti è un estratto di confusione. Già il cast che doveva prevedere Montgomery Clift (poi sostituito proprio dall’inglese Dirk Bogarde), è un miscuglio di attori americani e italiani che recitano tutti per loro stessi. Ambientato durante la guerra civile spagnola ma girato a Roma e Catania (non so perché Bogarde citi la Calabria… forse scarsa confidenza con la geografia italiana?), affronta la parte storica come di solito lo fanno gli americani di Hollywood, con superficialità e schematicità. Una gran confusione di coalizione Repubblicana di sinistra “mangiapreti” e ribelli di destra nazionalisti (quelli di Franco) appoggiati dalla Chiesa. In mezzo lo “spretato” Alberto (Bogarde) che lascia la Chiesa perché lontana dal popolo e si innamora della donna perduta Soledad (Ava Gardner), prostituta da cabaret. Il film si trasforma in un tragico melodramma in cui la redenta Soledad viene comunque punita dal destino e Alberto che si riavvicina a Dio, nella metafora della Chiesa distrutta, perché quella è l’unica via per fuggire dal dolore e dalle atrocità della guerra che accomuna entrambe le parti. Aldo Fabrizi rifà il prete in mezzo alla guerra come in Roma città aperta (e anche qui finisce ammazzato), Vittorio De Sica un generale umanista e contro la follia della guerra, Joseph Cotten un corrispondente di guerra guercio, Enrico Maria Salerno un capitano torturatore, Arnoldo Foà e Nino Castelnuovo i capi dei ribelli che vogliono massacrare duecento innocenti. Come dicevo tutti recitano per la loro “prestazione” ma non per il collettivo. Il povero Johnson voleva dare un look neorealista al tutto “Noi giravamo al vero: lei non era truccata, portava un vestito orribile, e andava bene.” Ma “dopo tre settimane, la MGM ha visto le prime giornaliere e ha avuto una crisi isterica. Hanno ordinato che le tre settimane fossero rigirate con Ava vestita da Valentina (immagino sia Valentino… ndr) e Ferragamo, truccata e con tutto l’armamentario. Abbiamo ceduto, abbiamo fatto quello che ci hanno domandato, e il film è stato un disastro (…) Un giorno, durante una conferenza stampa a Roma, Nunnally ha dichiarato: <<Dirk è un tipo strano. Ho rovinato la sua carriera con questo film, e lui continua a volermi bene!”. Mereghetti è giustamente sbrigativo “un melodramma indigesto e pieno di retorica.” (voto 5-)