Jafar Panahi uscito di prigione non può uscire dal paese e non può girare film per un certo numero di anni. Lo troviamo quindi in un villaggio sul confine (quindi in posizione sospetta e scomoda) coordinando un film girato da un suo collaboratore a pochi chilometri di distanza su sue indicazioni da pc. La storia del film nel film riguarda una coppia che cerca di andarsene dall’Iran, lei è un’oppositrice del governo ed è già stata incarcerata e torturata, lui è malato. La storia in realtà rispecchia due persone reali che interpretano loro stesse. Nel frattempo Panahi scatta foto agli abitanti del villaggio mettendosi in difficoltà perché una di queste sembra essere stata scattata ad una ragazza che si trova insieme al ragazzo che ama che non è quello promessogli in sposo già dalla nascita. La cosa causa un incidente “diplomatico” tra le famiglie e rischia di trasformarsi in tragedia. La vicenda è veramente stata vissuta dal regista visto che si mette in scena personalmente?
Quindi abbiamo Panahi che si mette in scena come regista di un film per trasposta persona, il film rispecchia in realtà una vicenda vera e non finzionale, ma il vero film girato dal regista è quello che lo vede protagonista e che rispecchia la sua reale vicenda personale. Un incastro di finzioni e realtà, verità e falsità in un apparentemente complicato meccanismo metacinematografico.
Ma la complicazione in realtà non esiste perché lo sguardo del regista iraniano è poetico come sempre e contemporaneamente concreto e semplice nel raccontare i soprusi di un potere illiberale e le vittime che crea, ma anche delle tradizioni e delle imposizioni violente all’interno della società iraniana, in particolare quella di provincia (ma visto gli avvenimenti degli ultimi anni anche nella capitale non sembra andare molto meglio…). Se poi aggiungiamo le considerazioni non particolarmente velate sul ruolo dell’intellettuale all’interno di questa società, ammirato e allo stesso tempo sgradito a tutti perché appena si muove è come un elefante in una cristalleria, dobbiamo mostrare il cappello ad un artista che si conferma tra i più lucidi e coerenti di questi anni difficili per il mondo e il cinema. (Voto 7,5)
Un’inquadratura iniziale in cui si vede una grande insegna della Huawei, il McBook con cui controlla il set del film, la macchina fotografica Canon sono le brand presenti e sospette di product placement. Sono invece innumerevoli quelle di vestiario (Puma, Nike, North Face, Reebok…) probabilmente non scelte in particolare.