Giunto alla soglia dei settanta, Nanni Moretti (insieme a Bellocchio il nostro rappresentante della vecchia guardia ancora considerato internazionalmente, vedi Cannes e critici francesi che li adorano da sempre) ci consegna il suo 8 ½ tornando (finalmente) al suo cinema, quello che lo ha reso grande.
Dopo alcuni film (Tre piani, Mia madre, La stanza del figlio) in cui si cimentava nella riproduzione personale del cinema d’autore che lui ama (un po’ come il Woody Allen con i suoi cloni dello stile del suo amato cinema Europeo) e un paio di opere politico-grottesche (Habemus Papam e Il caimano), a più di vent’anni da Aprile torna la suo stile, alla rappresentazione di se stesso e della sua visione del mondo. E lo fa con la sua opera probabilmente più compiuta.
Trama metacinematografica che vede la rappresentazione di un regista, Giovanni (non riprende il suo Michele Apicella, alter ego storico), mentre sta girando un film sul 1956, anno dell’invasione dell’Ungheria da parte dei carroarmati russi per fermare la rivolta popolare, che vede protagonisti due militanti del PCI interpretati da Silvio Orlando e Barbora Bobulova i quali non arrivano ad un’intesa sentimentale a causa della diversa reazione di fronte agli eventi, il primo fedele al partito che appoggia l’Unione Sovietica, la seconda contraria e decisa a chiedere un cambiamento di atteggiamento e un passo verso una nuova visione del comunismo in Italia.
Intanto il regista ha i suoi problemi, sia finanziari che personali dato che la moglie, sua produttrice (Margherita Buy sempre bravissima), non ne può più di lui, dopo averlo sopportato per quarant’anni, e vuole separarsi.
Nel film Moretti mette di tutto.
Mette la sua visione politica sul comunismo e la prima Repubblica e l’inizio in cui spiega ad un giovane che in Italia c’è stato il comunismo ma non era quello russo, e il finale in cui con una didascalia spiega che il PCI ha perso la grande occasione di liberarsi dell’ideologia deviata della dittatura staliniana per portare aventi l’utopia comunista di Marx e Engels che avrebbe migliorato la vita di tutti, è una lucida analisi che vale mille discorsi per far chiarezza nella grande confusione odierna, per non dire revisione storica, di quanto abbia significato l’ideale comunista che non è solo il socialismo reale sovietico.
Mette le sue idiosincrasie morali e etiche e i suoi principi che non ammettono flessibilità alcuna, rasentando la follia del protagonista di Bianca, ma anche, di conseguenza, l’autocritica su quanto debba essere difficile sopportare questo atteggiamento rigido e indisponibile a deroghe di alcun tipo.
Mette le sue golosità e le sue ossessioni (prima di un film bisogna tutti guardare Lola di Ophuls e mangiare insieme gelato con panna e pistacchio di Bronte; i sabots non si possono vedere perché se si vede il calcagno mi devi far vedere anche le dita dei piedi…).
Mette la sua visione del cinema, anche qui con una certa rigidità di approccio, con un’interessante metacritica in cui spiega il suo punto di vista sulla rappresentazione della violenza baziniana, paragonando Kieslowski al cinema pulp odierno, in una sequenza grottesca ma acuta, in cui rinnova l’accusa già fatta in Caro Diario con la scena in cui bacchetta il critico interpretato da Mazzacurati, e facendo intervenire anche Renzo Piano…
Mette la sua critica alle nuove forme di produzione cinematografica prendendo posizione contro Netflix con l’incontro dei produttori della piattaforma che per dargli soldi gli vogliono imporre la loro visione pro-pubblico (in realtà seppur gustosa non mi pare correttissima dato che Netflix non mi pare faccia peggio delle major hollywoodiane, anzi…).
Mette il suo amore per il cinema richiamando la nouvelle vague (l’episodio dei due giovani che si amano con lui che al cinema gli fa da pigmalione e poi li segue nella loro evoluzione sentimentale), il cinema destrutturato di Godard e il musical con veri intermezzi cantati e ballati (il mio sogno è quello di fare una storia d’amore con tante canzoni italiane).
Alla fine ci restituisce un insieme piacevolissimo, a tratti geniale, facendoci sperare che su questa strada continui e come dice lui nel film cercando di farne a ritmi maggiori (sto facendo un film ogni 5 anni e non va bene…).
Citazione per Vanity Fair, un pianoforte Willermann suonato, Resto del Carlino e L’Unità, Vespa vintage e Netflix non certo per fare product placement volontario…